Settemila querce ci salveranno

Condivido le considerazioni di fondo espresse da Tita Carloni nel suo "Tre milioni di alberi per salvare Milano" (area n. 38 del 22 settembre). Le colgo anche come una buona occasione per esprimere alcune riflessioni sulla cultura del territorio. Indubbiamente, il degrado ambientale nel quale viviamo, l'incuria di quel bene comune fondamentale che è la natura, esige che la cultura del progetto abbandoni il principio dell' "occupazione", ossia della colonizzazione utilitaristica e privatistica dello spazio.

Come insegna la teoria dell'evoluzione le "fasi di colonizzazione" sono quelle fasi in cui lo sviluppo sembra legato al massimo utilizzo dell'energia e del suolo disponibile. Ma queste fasi legate all'idea di saccheggio illimitato delle risorse non rinnovabili sono costitutivamente aporetiche, ossia seguendole (come dice l'etimologia della parola) viene a cadere la via (poros), la possibilità di proseguire ulteriormente la vita nella stessa direzione. In altri termini, la dissipazione energetica, le contropartite entropiche e insomma gli "effetti collaterali" legati alla tendenza allo sviluppo sfrenato proprio della civiltà industriale metropolitana sono troppo importanti per poter essere sopportati. È quanto insegna minacciosamente, su scala globale, l'effetto serra. Ma non solo. Anche su scala locale, i celebri non-luoghi che attraversiamo negli spostamenti quotidiani sono in realtà chiazze entropiche sempre più diffuse, luoghi ad alta e inospitale entropia sia dal punto di vista ambientale che da quello antropologico, sociale e spaziale.
La stessa teoria dell'evoluzione insegna tuttavia che le comunità, una volta esplosa in insostenibile contraddizione la fase di colonizzazione, devono necessariamente specializzarsi nell'utilizzo delle capacità residue dell'ambiente, devono realizzare una frenata della crescita entropica, una riduzione del consumo dei flussi energetici. È quello che Jeremy Rifkin indica come il passaggio dalle "fasi di colonizzazione" alle "fasi di climax". E solo le "comunità climax", ossia quelle che si impegnano a sottoporre a un movimento di decrescita le loro esigenze energetiche e territoriali, sono quelle che possono sfuggire alla mortale aporia.
Ora più che mai le discipline territoriali quali l'urbanistica e l'architettura non dovrebbero eludere il confronto con questi concetti, con la svolta e la riduzione che essi implicano. Ne va del loro stesso senso, della loro stessa legittimità davanti al tribunale della ragione. Tradendo una cura ambientale e atmosferica tutt'altro che assente negli antichi "sacri testi" della disciplina (nei quali nel solco di Ippocrate la bella città deve essere come un "buon pascolo" e l'architetto, secondo Vitruvio, deve assumere la salubrità come un criterio orientativo della progettazione) queste nobili discipline, alienate da questa più ampia dimensione politica, rischiano di perdere la loro finalità originariamente legata alla dimensione della cura, e di ridursi a monumentalizzare e a incrementare, paradossalmente, la voracità energetica contemporanea. Ben venga dunque, come osserva Tita Carloni, il progetto milanese del "Metrobosco" e le analoghe iniziative già sviluppate attorno a varie metropoli europee. Ma ciò che conta in riferimento alla svolta territoriale "climax" sarebbe anche la diffusione ad ogni scala di una cultura legata all'idea e alla pratica dello "spostamento proporzionale".
L'idea della riforestazione, attorno alla quale sembra girare il progetto "Metrobosco", andrebbe del resto riportata all'Azione 7000 Querce avviata già nel 1982 da Joseph Beuys a Kassel. Con questa operazione di "scultura sociale" l'artista tedesco decise la piantumazione di 7 mila querce nel territorio della città di Kassel, al fine di realizzare "un concetto di ecologia ampliato" che doveva aumentare con il passare degli anni «perché noi – proclamava Beuys – non vogliamo mai più porre fine all'azione-piante!». Accanto ad ogni quercia venne eretta una stele di basalto, prelevata da un enorme mucchio depositato in una piazza della città. Proporzionalmente al numero di alberi piantato, il numero delle pietre depositate veniva ridotto, fino alla sua eliminazione e alla liberazione della piazza, in cui restava la prima quercia con accanto la sua stele. Evidentemente con il passare del tempo ogni quercia sviluppandosi determinava un impercettibile movimento di riduzione proporzionale della stele di pietra che le era posta accanto. La pietra dopo 20-30 anni sarebbe diventata un semplice accessorio ai piedi della quercia.
Ma l'azione concepita da Beuys era destinata a provocare un analogo e ulteriore movimento di spostamento proporzionale nell'ambito territoriale dell'intera città, ossia a variare il rapporto fra le parti cementate e private del territorio (che in proporzione diminuiscono e vedono erodere la loro egemonia) e la parte pubblica di alberi e parchi (che cresce e si espande). L'attuazione di questo "spostamento proporzionale" implicava un movimento di decrescita e liberazione: una riduzione della dominanza del mondo appropriabile e mercificabile degli oggetti e della disseminazione degli immobili a favore della creazione di un'altra spazialità, condizione necessaria (anche se non sufficiente) per un'altra etica dell'esistenza.
E in vista, in definitiva, di un'altra politica terrestre, una politica del più grande stile. Come scriveva Beuys, con irrinunciabile slancio visionario: «Quando Kasssel sarà rimboscata, seguiranno le vicine città e luoghi della Germania, dell'Europa Centrale, dell'Est, dell'Ovest, del Nord, del Sud e di ogni parte. Si sarà compreso da molto tempo che quello avviato è un processo di spostamento proporzionale del più grande stile, che comprende il pianeta nella sua interezza e tutto ciò che vi è. Cioè, nel presente, la vita abbandonata alla distruzione».

Pubblicato il

24.11.2006 05:00
Nicola Emery