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Sepolti vivi, a colloquio con Evelina Colavita
di
Damiano Realini
De profundis per un popolo, per una nazione, l’Afghanistan è in ginocchio. In stato di asfissia, sta morendo in un baratro di violenza, furore ed ignoranza. L’ira funesta che infiniti lutti addusse è quella dei talebani. Noti come studenti di teologia, trafficano con le armi, trafficano con le droghe. Studenti, ovviamente, si fa per dire. Molti infatti versano in uno stato di analfabetismo totale. Il sapere religioso se lo tramandano oralmente, così come quello criminale. Spietati con le donne, con gli oppositori politici, con i nemici, con il progresso di qualsiasi genere, oggi sono padroni di oltre il 90% del territorio afghano. Votati al dio kalashnikov e al mullah Omar, "principe dei fedeli", il potere oggi è in mano loro. Ma come si spiega questa folle ascesa dei folli? La risposta nella storia, recente e sanguinosa, di un paese al capolinea del mondo. Data 17 luglio 1973 il rovesciamento della monarchia di Muhammad Zahir Shah operato dall’ex primo ministro Sardar Daud, che proclama la Repubblica dell’Afghanistan. Daud, ritenuto eccessivamente filoiraniano perde il governo e la vita durante il colpo di stato del 24 aprile del 1978. Nasce così la Repubblica democratica afghana, presieduta da Nur Taraki. Ma l’instabilità è il vero regnante nel paese. Gravi dissensi interni portano alla fucilazione di Taraki, e al suo posto ecco il primo ministro Hafizullah Amin, esponente di punta della fazione Khalk. Ma si sa che chi di spada ferisce di spada perisce. Hafizullah Amin finisce, con l’intera famiglia, in una pozza di sangue. È questa la conseguenza diretta dell’invasione sovietica del dicembre 1979. Invasione che favorisce l’insediamento al potere del leader del Parcham Babrak Karmal, di ritorno dall’esilio. Seguono dieci anni di guerra. L’opposizione alle truppe sovietiche si aduna attorno all’Unione Islamica che riunisce tutte le fazioni dei guerriglieri musulmani, i mujaheddin, che dal confine con il Pakistan, e appoggiati dagli Stati Uniti, conducono una guerra di logoramento. Guerra, che come tutte le guerre, partorirà morte, sofferenza ed esodi vari. Sarà poi in seguito ad un accordo stipulato a Ginevra nel ’88 fra Afghanistan, Stati Uniti, Unione Sovietica e Pakistan, che i sovietici si ritirano, aprendo il campo così ad un debole governo filosvietico capeggiato da Najibullah. Debole, e pertanto destinato a soccombere. Dopo alcuni giorni di potere vacante, Kabul finisce nelle mani del più illustre dei combattenti della resistenza antisovietica: il "Leone del Panshir", comandante Massoud. Siamo nel ’92, e per due anni, l’Afghanistan è teatro di una sanguinosa guerra civile fra diversi, quattro per precisione, gruppi etnici, affiliati ad altrettanti signori della guerra. Eppure Massoud resiste, in un periodo contraddistinto da precarie alleanze, continui voltafaccia, ed effimere intese. Risultato? Instabilità dell’intero paese. E da che mondo e mondo si sa, che l’instabilità costituisce terreno fertile per i latori di proposte forti, anzi fortissime, alimentatrici d’illusioni. Irrompono così i talebani, "coloro che cercano il sapere religioso", di etnia pashtun, provenienti dai campi profughi in Pakistan. La loro ascesa è rapida in una nazione ormai allo sbando. Provincia dopo provincia conquistano l’intero paese obbligando Massoud a ritirarsi nel Nord-Est. Sono un’élite di 50 mila uomini figli della Jihad (la guerra contro i russi), che impongono a milioni di afgani, fra le altre cose, il coprifuoco serale e con esso il terrore, la violenza. Disattese dunque le promesse che parlavano di uno stato tanto forte e religioso, quanto però incorruttibile e giusto. Ma chi finanza i Talebani? Il Pakistan, intenzionato a mantenere un controllo sullo stato limitrofo. Il commercio della droga operato dagli stessi Talebani. Inoltre alcune compagnie petrolifere americane, interessate alla costruzione di un gasdotto che dal Turkmenistan passi attraverso l’Afghanistan, dribblando di fatto l’Iran e i paesi ex sovietici. Queste le coordinate generali di un Afghanistan, da almeno trent’anni impantanato nella miseria della miseria, ed oggi più che mai sepolto in uno scenario agghiacciante, fra mine antiuomo e privazioni di quei diritti umani, considerati elementari. E come se non bastasse, pure gli dei si sono messi a remare contro: da qualche mese una tremenda siccità attanaglia le residue energie di questo esercito di disperati, ormai alla deriva tra macerie e deserti. Pertanto la fuga, che poi assume i contorni di un esodo biblico, appare una delle poche soluzioni accettabili. Ce ne ha parlato Evelina Colavita, prima di recarsi in un campo profughi afgano in Pakistan, per rendersi utile laddove le donne partoriscono nel fango, e i più deboli soccombono. Per il freddo, per la tubercolosi, per la dissenteria o per la fame. Solo per denutrizione sono 300 mila i bambini passati, è il caso di dirlo, a miglior vita. Ottenuto il congedo dal Centro di registrazione per richiedenti d’asilo a Chiasso, dove la Colavita presta servizio, per questa "avventuriera" ha preso avvio un’esperienza unica.
Signora Colavita quali le sue mansioni?
Il mio ruolo laggiù ancora non è ben definito. Solo una volta sul posto saprò come rendermi utile. D’altronde c’è così tanto da fare... La situazione è disperata. Il Pakistan poi è uno stato povero, non più in grado di accettare altri profughi.
Nervosa?
Direi, è il mio primo viaggio umanitario. Anzi ho quasi paura. È già da dodici anni che con mio marito viaggio in Oriente, ma questa volta sarà tutto nuovo per me. Un’esperienza toccante.
Precisamente dove si recherà?
Nel campo di Kuetta, dove si sono insediati 500 mila profughi afgani di etnia Hazara, di credo sciita. I talebani invece avevano trovato riparo nel campo, sempre pakistano, di Peshawar. Oggi è difficile quantificare con precisione il numero totale dei profughi. È certo che si parla di circa tre milioni. Io troverò accoglienza presso Sima Samar, di etnia Hazara. Una donna fantastica che con le armi della solidarietà ha dichiarato guerra ai talebani, creando ospedali e scuole, servizi carenti in Afghanistan come in Pakistan. Istruzione e sanità infatti non vengono assolutamente garantiti dal "governo". Sima, essendo medico, possiede le competenze tecniche adatte. Inoltre è dotata di un gran coraggio.
Coraggio che in Svizzera è valso a Sima Samar il Premio Grüninger.
Esatto. Un importante riconoscimento per il suo impegno umanitario. E al riguardo colgo l’occasione per ricordare che è possibile, per chi volesse sostenere questa solidarietà, versare un contributo ad "Afghanistan Hilfe", associazione umanitaria con sede a Sciaffusa, sul conto corrente n° 82-2787-6.
Come mai le organizzazioni internazionali sono restie nell’intervenire in queste situazioni?
In un certo senso una mobilitazione contro i talebani c’è stata. Lo sdegno contro la distruzione dei Buddha nella valle di Bamijan lo testimonia. Certo è scandaloso che il mondo si sia messo in piedi per dei reperti archeologici, pur importantissimi, quando la gente muore di fame. Per quanto riguarda invece l’aiuto umanitario e la sua carenza, va capito che l’Afghanistan è sotto embargo, diventa così difficile allestire una catena d’aiuti efficiente nell’intera regione. Lo stesso vale per un intervento Onu.
Eppure, oggi come oggi, un intervento esterno sembrerebbe l’unica soluzione per lenire quest’umana tragedia. Ma chi se la passa peggio in Afghanistan?
Probabilmente le donne. Donne che non contano nulla. Zero assoluto! Costrette ad indossare il burka, il pesante copricapo, sono prive di qualsiasi diritto: istruzione, libertà, dignità. E poi i bambini, gli anziani. Tutti insomma, stanno patendo l’impossibile. L’impossibile sì, come un incubo prodotto da un’ira cieca e funesta. E l’ira che infiniti lutti addusse, lo si è capito, è quella dei talebani, pestifera e feroce schiera detentrice del potere con lo zampino del Pakistan, dei traffici di droga e di alcune compagnie petrolifere americane. Ed è così che per l’Afghanistan, altro non si poteva intonare che un de profundis. Aspettando che si trasformi in un finale, liberatorio e festoso inno alla vita. Ma quanti parti ancora nel fango?
Pubblicato il
25.05.01
Edizione cartacea
Anno IV numero 18
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