Senza più Saddam

La fine auspicata del regime di Saddam non è stata una liberazione. L’occupazione del paese da parte delle forze anglo-americane apre una nuova pagina nera della storia dell’Iraq. Le incognite che si addensano sul futuro del paese lasciano prevedere che il popolo iracheno, stremato da tre guerre e da dodici anni di embargo, sarà sottoposto ancora a dure prove. Gli iracheni non ne potevano più di Saddam Hussein ma non hanno dato il benvenuto a Bush, tranne piccole frange di opportunisti che pensano di poter trarre vantaggio dalla situazione, in primo luogo coloro che hanno saccheggiato ministeri, ospedali e musei, approfittando dei momenti di anarchia intercorsi tra il vuoto lasciato dal collasso del regime e il posizionamento delle truppe americane a Baghdad. Che forse all’inizio non avrebbero potuto ma probabilmente nemmeno voluto evitare lo sfregio al passato regime, visto che la priorità dei marine appena entrati nella capitale è stata quella di abbattere le statue di Saddam, che la gente ignorava. La popolazione non è uscita per strada ad applaudire i soldati di Bush, per giorni è rimasta tappata in casa proprio come durante i bombardamenti, diffidente e ostile agli invasori. Un popolo orgoglioso come quello iracheno, un paese che è stato la culla della civiltà – nonostante i vandali del museo abbiano cercato di distruggerne molte tracce – non può accettare di essere colonizzato nel ventunesimo secolo. Naturalmente l’espressione dell’opposizione all’occupazione, che già si percepisce e si manifesta, assumerà un impatto maggiore man mano che la società civile comincerà a darsi quelle forme di organizzazione che finora non ha potuto avere. Con Saddam Hussein esisteva solo il partito Baath, con una presenza tentacolare alla quale nulla sfuggiva e che aveva il controllo persino sull’esercito. Al di fuori del partito era terra bruciata: tutta l’opposizione era stata eliminata, fisicamente, soprattutto le forze laiche. I comunisti, che erano una forza importante con una base consistente soprattutto nella comunità sciita, sono stati assassinati o imprigionati e poi spariti. Hanno cominciato a riemergere in questi giorni con la pubblicazione del loro giornale, «La via del popolo», il primo foglio ad apparire sulla scena irachena del dopo Saddam, per dire che esistono ancora nonostante la repressione del rais. Sono stati repressi – e alcuni leader assassinati – anche i religiosi sciiti, che però hanno sempre avuto la possibilità di mantenere una loro presenza sul territorio grazie all’attività delle moschee. Così la rappresentanza dell’opposizione sciita è finita nelle mani dei religiosi e oggi se ne vedono le conseguenze. Gli sciiti – il 60 per cento della popolazione esclusa dal potere riservato da Saddam alla comunità sunnita, alla quale apparteneva il suo stesso clan dei Tikrit – oggi cercano il loro riscatto. E l’unica forza in grado di organizzare la rabbia e le rivendicazioni di potere è per ora quella delle moschee e delle madrasa (le scuole coraniche) di Najaf e Kerbala, le due città sante dell’islam, culla dello sciismo, che hanno formato tutti i leader sciiti a livello mondiale. Anche l’ayatollah Khomeini aveva teorizzato proprio a Najaf il “wilayat al fiqh” che istituzionalizzava il potere religioso e da qui aveva preparato la sua rivoluzione islamica che avrebbe realizzato in Iran. Naturalmente erano molti i seguaci anche iracheni di questa teoria, tra i quali Mohammed Baqer al Sadr, assassinato dal regime nel 1980. I pellegrinaggi che si sono svolti nei giorni scorsi a Kerbala, in occasione della fine del lutto per il martirio dell’imam Hussein, figlio di Ali capostipite dello sciismo, avvenuto nel 680, hanno rappresentato la prima manifestazione di forza del movimento sciita sia rispetto alle forze interne del paese che rispetto a quelle occupanti. Quale unico movimento di opposizione interno organizzato il movimento sciita è anche l’unico in grado in questo momento di cavalcare la rivolta contro l’occupazione anglo-americana. Ma prima ancora di arrivare allo scontro, i leader sciiti stanno cercando di approfittare del vuoto di potere provocato dal crollo del regime per occupare gli spazi istituzionali e costituire una sorta di potere parallelo per mettere le forze occupanti di fronte al fatto compiuto. A partire dalle roccaforti di Kerbala e Najaf, dove gli sciiti non si sono opposti alle truppe di occupazione fino a quando non si sono avvicinate ai luoghi santi, per proteggere i quali i religiosi sono riusciti ad ottenere il controllo delle due città. Anche a Baghdad la loro presenza è sempre più evidente. Di fronte all’indifferenza dei marine rispetto ai saccheggi – non determinati tanto dalla necessità di soddisfare bisogni materiali quanto piuttosto dal desiderio di vendetta giustificato ma probabilmente anche sfruttato da qualche forza interessata – che non hanno risparmiato ministeri, ospedali, musei, i religiosi, soprattutto sciiti, si sono fatti carico di intercettare i ladri per recuperare la refurtiva. Per farlo hanno costituito delle bande di giustizieri, una sorta di polizia religiosa, che ricorda modelli adottati in altri paesi. Non solo. Due sceicchi – uno sunnita e uno sciita – hanno assunto anche la direzione dell’ospedale al-Kindy, il più grande della capitale irachena, dopo che era stato saccheggiato. Sono i militanti islamisti anche a garantirne la sicurezza, mentre i “volontari” si stanno occupando del recupero delle strutture. Tutti gli ordini arrivano da Najaf, ad impartirli è Mukhtada al-Sadr, un giovane e fanatico hajatolesman – un livello intermedio nella gerarchia del clero – protagonista della radicalizzazione del movimento sciita. Le sue credenziali gli derivano dal fatto di essere figlio di uno dei “martiri” del movimento sciita, Mohammed Sadeq al-Sadr, assassinato, come l’altro al Sadr, dal regime nel 1999, e la sua forza è garantita dall’appoggio ottenuto dal primo partito islamista fondato in Iraq (nel 1957), al-Dawa, finora attivo nella clandestinità. Mukhtada si candida a nuovo leader sciita nel momento in cui il movimento assume sempre più le caratteristiche di movimento politico, in contrapposizione all’attuale leader, il settantaduenne ayatollah Ali al-Sistani, il cui handicap è quello di essere di origini iraniane. I legami tra sciiti iracheni e l’Iran, il paese a stragrande maggioranza sciita, sono inevitabilmente stretti, anche se tra gli sciiti iracheni è sempre stata presente una forte corrente patriottica che è prevalsa anche quando è scoppiata la guerra contro l’Iran, nel 1980. Anzi, questa guerra era stata usata da Saddam proprio per esportare la questione sciita. I rapporti con Tehran sono quindi contraddittori, anche con la rappresentanza dell’opposizione sciita che si è installata in Iran. Il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciiri), guidato da Mohammed Baqer al-Hakim, quando fu fondato nel 1982 era rappresentativo di tutta la nebulosa islamista sciita, ma la sua trasformazione in braccio armato della politica iraniana in Iraq aveva provocato l’allontanamento di alcune organizzazioni, soprattutto dell’influente partito al-Dawa. Nel momento in cui la lotta politica si fa più accanita anche la guerra per l’assunzione della leadership non risparmia colpi. In questo momento il clima sembra più favorevole al giovane Mukhtada al-Sadr, i cui uomini sono anche ritenuti responsabili dell’assassinio dentro il recinto della moschea di Najaf che ospita il santuario del quarto califfo Ali, di Abdel Majid al-Khoï, figlio del famoso ayatollah Abdul-Qassem al Khoï, che era appena rientrato da Londra dove aveva trascorso dodici anni di esilio, con il beneplacito dell’alleanza anglo-americana. Al-Khoï è stato pugnalato a morte perché ritenuto troppo filo-occidentale. I kurdi volgliono un loro Stato Se a sud gli americani devono giocare la loro partita con gli sciiti, che hanno approfittato dell’invasione senza approvarla per eliminare Saddam ma non sono disposti a tollerare la presenza straniera a lungo, al nord il compito è relativamente più semplice. I due partiti kurdi – il Partito democratico del Kurdistan di Massud Barzani e l’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani – hanno appoggiato l’intervento armato, hanno combattuto con i marine, anzi a volte sono stati mandati avanti da soli e vogliono spartirsi i proventi del petrolio di cui la regione è ricca. Ma come si concilieranno gli interessi americani rappresentati dal governatore Jay Garner, quelli dei kurdi e quelli degli sciiti? Intanto le velleità autonomiste se non proprio indipendentiste dei kurdi si scontrano con la Turchia che teme il profilarsi di qualche forma di autonomia kurda (peraltro già ora c’era una amministrazione autonoma) che potrebbe rappresentare in nuce l’idea di uno stato kurdo con effetti a catena sui kurdi turchi. Quindi Ankara è decisa a contrastare qualsiasi eventualità del genere. Nonostante questo c’è chi continua a ritenere che l’unica soluzione potrebbe essere quella di una spartizione dello stato iracheno in tre, con il sud agli sciiti, il nord ai kurdi – Turchia permettendo, ma non è assolutamente detto – e il centro agli americani e ai sunniti. Ma c’è da considerare che gli americani che hanno fatto una guerra per impadronirsi del petrolio – che si trova al nord e al sud – oltre che per riaffermare la propria egemonia nella regione e trovare lo spazio per nuove basi militari, non si lasceranno facilmente sottrarre il controllo da poteri locali, quindi probabilmente dovranno trovare il modo di preparare il terreno per il trasferimento di poteri a loro uomini fidati. Ma l’opposizione filo-americana non ha nessuna credibilità all’interno del paese, non esiste nemmeno un “Karzai” iracheno: il favorito, lo screditato e corrotto ex banchiere Ahmed Chalabi, ha già provocato manifestazioni di protesta. Questa situazione non potrà che accrescere l’ostilità nei confronti degli americani e di quel Jay Garner che dopo aver fatto bombardare l’Iraq con i propri missili ora pretende di ricostruirlo e di impossessarsi del petrolio.

Pubblicato il

01.05.2003 02:00
Giuliana Sgrena