Non c’è pace sulle macerie del Molino, il centro sociale autogestito luganese che andò distrutto una notte di maggio di due anni fa durante un’operazione di polizia di sgombero su mandato dell’autorità cittadina. Bocciata la prima inchiesta, la seconda si scontra con l’annerimento della documentazione da parte della Polizia cantonale. La giustizia ticinese fatica non poco ad arrivare alla verità di chi porti la responsabilità di quella demolizione, per arrivare a sanare quel che è stata definita una ferita aperta nel tessuto cittadino. Una ferita rimasta aperta sulla quale oggi qualcuno mette del sale. Sì, perché la ricerca della verità ora si tinge di nero. La mano che annerisce dei documenti è di quelle importanti, quella del Comandante della Polizia cantonale Matteo Cocchi. Il destinatario della documentazione annerita è altrettanto importante, il Procuratore generale (Pg) Andrea Pagani, che sta nuovamente indagando sulla demolizione del Molino. Importanti lo sono anche i documenti anneriti, facendo parte dei supplementi d’inchiesta imposti dalla Corte dei reclami penali (Crp) dopo aver bocciato l’esito della prima inchiesta.
Tutto da rifare Lo scorso giugno, la Crp accolse il ricorso del legale dell’associazione Alba contro il decreto d’abbandono che scagionò dalle accuse l’allora vicecomandante della Cantonale Lorenzo Hutter (a capo dell’operazione di polizia), e la municipale luganese Karin Valenzano, per aver autorizzato quale autorità cittadina la demolizione parziale della sede del centro sociale. Al Pg fu dunque imposto di riaprire l’inchiesta, raccogliendo nuova documentazione e procedendo a nuovi interrogatori. Ma l’inchiesta ora si tinge di nero poiché la nuova documentazione inviata dalla Polizia cantonale è arrivata parzialmente annerita negli uffici del Ministero pubblico. Tecnicamente, la Polizia cantonale ha chiesto l’apposizione dei sigilli in base all’articolo 248 del Codice di diritto processuale penale svizzero. «Le carte, le registrazioni e altri oggetti che secondo le dichiarazioni del detentore non possono essere perquisiti o sequestrati in virtù della facoltà di non rispondere o di non deporre oppure per altri motivi, sono sigillati e non possono essere visionati né utilizzati dalle autorità penali» recita l’articolo.
Segreto di Stato? Quali sarebbero le informazioni tanto importanti da spingere la polizia ad invocarne il segreto? Da nostre informazioni, non sarebbero state annerite solo poche parole (ad esempio un’ipotetica fonte confidenziale della polizia), ma parti ben più consistenti. La vicenda assume così i contorni di una spy story, da segreti di stato superiori alla verità processuale. Eppure stiamo parlando di un’operazione di polizia di sgombero di un centro sociale da una sede convenzionata col Comune, non di attentati terroristici o guerre imminenti. Tra l’imbarazzo pubblico o le conseguenze nel consegnare gli atti, i vertici della polizia cantonale hanno preferito la prima opzione. Si vedrà se i presunti segreti reggeranno davanti all’Ufficio del Giudice dei provvedimenti coercitivi, chiamato a decidere sulla richiesta già inoltrata da Pagani volta a desegretare quegli atti. Ad ogni buon conto, la scelta dei vertici della polizia suscita altre domande spinose. Interrogativi ancor più intriganti, quando l’indagato ricopre il ruolo di sostituto comandante della Polizia cantonale. Una scelta autonoma o condivisa col Dipartimento delle istituzioni, gerarchicamente superiore diretto della polizia? Di certo, la già tortuosa ricerca della verità si va complicando. O perlomeno, si vanno allungando i tempi.
Amianto, un pericolo scampato Come si arrivò quella notte di maggio ad azionare le ruspe che nel giro di poche ore demolirono lo stabile in spregio a leggi edilizie e norme di sicurezza in caso di amianto (molto plausibile vista l’età dell’edificio), è la verità che si va cercando. Potenzialmente fu messa in pericolo la vita e la salute di operai, poliziotti, manifestanti, dei curiosi e di tutti gli abitanti dell’area circostante, allievi delle scuole adiacenti comprese. La successiva perizia delle macerie accertò sì la presenza di amianto, ma non in quantità sufficiente da essere considerate pericolose. Un’incoscienza graziata. Al termine della prima inchiesta, il Procuratore generale imputò la demolizione a «un malinteso dovuto ad un claudicante passaggio di informazioni all’interno della polizia» che li portò a demolire tutto lo stabile invece del solo tetto. La presunta scelta di demolire il solo tetto, a mente del Pg, si sarebbe giustificata per «uno stato di necessità esimente», ossia la decisione di compiere un reato (la demolizione) fu presa in urgenza col fine di salvaguardare la vita di poliziotti e manifestanti nel caso di una eventuale rioccupazione. Come detto, la Crp valutò lacunosa su più aspetti l’inchiesta condotta dal Pg, annullandone le conclusioni e intimando degli approfondimenti supplementari. Cosa pianificò Papi? Fra i diversi aspetti da chiarire nella nuova inchiesta, la gestione della Polizia cantonale dell’operazione denominata “Papi”. Si ricorda che, come già riportato da area, a poche ore dalla sua costituzione, lo Stato maggiore inviava delle mail alla Polcomunale per sapere quali stabili fosse possibile demolire in caso di sgombero. Era l’11 marzo. Due mesi e mezzo dopo, lo stabile indicato andò giù. «Difficile credere che lo Stato maggiore abbia improvvisamente adottato la demolizione del tetto, benché consapevole che l’intervento avrebbe probabilmente comportato anche il crollo delle pareti, e per di più in una situazione d’urgenza e di stress, visto che la pianificazione dello sgombero era in atto (almeno) da inizio marzo ed era già conclusa da tempo» annota la Crp, bocciando le conclusioni della prima inchiesta. Per poterne chiarire i fatti, dice la Crp, occorrono i verbali e la documentazione dello Stato maggiore dell’operazione Papi. Proprio quei documenti ora anneriti dai vertici della Polizia cantonale. Nella prima inchiesta, aveva specificato la Crp, non si è chiarito se la Cantonale avesse ripreso la pianificazione dello sgombero già allestita dalla Polcomunale l’anno precedente, e se già allora fosse stata prevista la demolizione. Non fu nemmeno chiarito perché un poliziotto avesse scattato delle fotografie degli autogestiti all’ex Macello mentre l’operazione di sgombero era stata “congelata” dall’esecutivo luganese in attesa della valutazione giuridica della disdetta. Non è stato neanche suffragato se il tetto dello stabile distrutto fosse davvero pericolante, limitandosi a dare per buone le affermazioni degli indagati. leggi anche=> Assolta la politica della ruspa Tanti, troppi i punti interrogativi a cui la “claudicante” documentazione della Polizia cantonale all’indirizzo degli inquirenti, non contribuisce certo a dissolvere. E la ferita continua a sanguinare. Il parere dell'esperto «In sessant’anni di attività professionale, non ho mai sentito di una simile condotta da parte della polizia». È esterrefatto l’avvocato Paolo Bernasconi, Procuratore ticinese dal 1969 al 1985, professore a Milano, Zurigo e San Gallo e padre della legge antiriciclaggio in Svizzera. Non si capacita del come la polizia abbia potuto sigillare documentazione destinata al Procuratore generale. «Semplicemente, la polizia non può farlo. Ai miei studenti ricordo sempre che in Svizzera, l’unico luogo dove il Procuratore non può indagare sono le ambasciate, protette dal diritto internazionale. Altrimenti, il Procuratore può andare ovunque e sequestrare i dati e la documentazione richiesta». L’avvocato Bernasconi chiarisce quando si può far ricorso all’articolo 248 del Codice di procedura penale, chiedendo di apporre dei sigilli. «Ipotizziamo ad esempio che, nella perquisizione presso un fiduciario, la Magistratura, indagando su due suoi clienti, sequestri l’intera documentazione. Tra questa, oltre a quella dei due indagati, si trova la documentazione di altri 98 clienti. Il fiduciario, per tutelare il suo segreto professionale, chiederà il sigillo sui documenti affinché la magistratura possa visionare unicamente la parte relativa ai due clienti indagati, non di tutta la sua clientela». Riassumendo, «la posa dei sigilli serve a tutelare il segreto professionale e null’altro», spiega l’avvocato Bernasconi. «La polizia non ha i titoli per invocare il segreto dei suoi atti. La Polizia cantonale è un collaboratore della giustizia, al servizio della Magistratura. Chiedendo i sigilli sulla documentazione, compie un atto di ostruzionismo alle indagini» conclude l’avvocato Bernasconi.
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