La scena è alquanto surreale. Mentre in Ucraina soffiano venti di guerra, il Tribunale penale federale (TPF) ha tentato oggi di collegarsi in videoconferenza con Kiev. Obiettivo: interrogare il boss criminale bulgaro Evelin Banev nell’ambito del processo che vede coinvolta Credit Suisse. Una giudice locale ha informato in un inglese stentato che il narcotrafficante - rifugiatosi in Ucraina, Paese di cui ha ottenuto la nazionalità - non si è presentato all’audizione e che si troverebbe in un’altra città. Impossibile sapere se non ha ricevuto l’ordine di comparizione oppure se si è semplicemente rifiutato di recarsi all’appuntamento. A Kiev, è ovvio, oggi le priorità sono altre. Evelin Banev, che tra Italia, Romania e Bulgaria ha accumulato condanne per 37 anni di carcere, avrebbe potuto svelare dettagli inediti quanto alle sue relazioni con la seconda più grande banca svizzera. La vicenda, degna di un romanzo criminale, l’avevamo raccontata di recente sulle nostre pagine. Il boss bulgaro aveva scelto la sede di Paradeplatz della banca come perno della sua attività di riciclaggio dei soldi provenienti da un vasto traffico internazionale di cocaina: a Zurigo aveva aperto decine di conti e operato presunte transazioni illecite per oltre 146 milioni di franchi. La banca, così come una sua ex dipendente, erano così finiti oggetto di un’inchiesta che, a quasi quindici anni dal suo inizio, è sfociata nel processo apertosi lo scorso 7 febbraio. Un processo tuttora in corso e che potrebbe portare ad una condanna penale alla seconda più grossa banca elvetica. È in questo contesto che, il 20 febbraio, un consorzio di giornalisti internazionali ha pubblicato gli SuisseSecrets. Un’enorme fuga di dati bancari che riguarda proprio Credit Suisse. Un'inchiesta che ha portato alla luce il fatto che l’istituto zurighese, per anni, avrebbe accettato come clienti autocrati, trafficanti di droga e di esseri umani, e sospetti criminali di guerra. Le informazioni divulgate sono certo importanti, con delle novità e una vista d’insieme che impone una riflessione sulla piazza finanziaria elvetica e sulla storia macabra del segreto bancario. Per chi dalla Svizzera, però, ha seguito i numerosi dossier che hanno coinvolto le varie banche incappate in questi anni in scandali e vicende penali, gli SuisseSecrets non sono una novità così clamorosa: sono semplicemente un nuovo capitolo di un libro già letto. Criminali accettati come clienti da Credit Suisse? Basta sfogliare l’atto d’accusa del caso Banev per rendersi conto che siamo di fronte ad un’ovvietà, per quanto degna di nota e ricca di nuovi elementi. Il vero scandalo, per noi svizzeri, è un altro. È la museruola che tutti noi giornalisti abbiamo addosso da anni. Una museruola che nemmeno sapevamo di avere tanto abbiamo imparato a smettere di mordere. Ci hanno pensato gli SuisseSecrets a mettere con forza il tema al centro del dibattito politico. Perché anche quella a cui abbiamo assistito il 20 febbraio è una scena surreale: centosessanta giornalisti di 48 media in 40 paesi a svelare i dettagli osceni di uno dei simboli del capitalismo finanziario elvetico e noi cani pastori svizzeri tutti a guardare con la bava alla bocca e chiederci se ci siamo. No che non ci siamo. Non abbiamo potuto. Come è possibile, ordunque? Per capirlo dobbiamo analizzare l’articolo 47 della legge federale sulle banche, quello che dal 1934 blinda nella legislazione svizzera il caposaldo del segreto bancario. Un articolo introdotto sotto la pressione del mondo bancario e che prevede che tutti gli impiegati e gli organi di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela commettono un delitto. Una legge che è stata rinforzata nel 2015, a seguito di un’iniziativa parlamentare del Plr nel contesto di un’aumentata pressione internazionale sulla Svizzera e di episodi come gli SwissLeaks, il massiccio furto dei dati dalla filiale ginevrina di Hscbc. Allora, il Parlamento ha deciso di estendere la legge a “chiunque, intenzionalmente, divulga un segreto che gli è stato rilevato” in violazione del segreto bancario. Tra questi, ecco che siamo tutti noi, giornalisti compresi, che possiamo essere imprigionati fino a tre anni se divulghiamo dati sui clienti delle banche. Anche quando, poco importa, vi è un indubbio interesse pubblico nelle rivelazioni delle informazioni. Per questo le testate di Tx Group (Tages Anzeiger, Tribune de Genève, 24Heures), che solitamente partecipano a queste inchieste collaborative transnazionali, si sono chiamate fuori. Troppo alto il rischio. Una scelta comprensibile, ma anche strategicamente studiata dato che ha permesso di tematizzare un tema di cui molti, noi giornalisti in primis, eravamo ignari. In Parlamento sono così già stati depositati degli atti, mentre Reporter sans frontières ha detto che questa legislazione pone "una minaccia inaccettabile alla libertà di stampa". Da parte sua, Irene Khan, rapportatrice dell’Onu per la libertà d’espressione, ha messo in guardia le autorità svizzere: "Perseguire penalmente i giornalisti per aver pubblicato dati bancari di interesse pubblico sarebbe contrario alle norme internazionali sui diritti umani”. Sono intervenuti anche i redattori di quattro grandi testate internazionali per denunciare la minaccia alla libertà d'informazione posta dall'articolo 47 della legge sulle banche svizzere. I paladini della democrazia che si fanno dare lezioni dall’estero. Un po' umiliante, non credete? D’altronde è appurato: in Svizzera è più facile per un dittatore o un narcotrafficante aprire un conto bancario che per un giornalista rivelare questa informazione. Funziona così nel Paese delle banche. O meglio: nella repubblica alpina delle banane. |