«Alla vigilia della Brexit siamo nel panico. Ci prepariamo al peggio». Così una emigrata francese esprime lo stato d’animo di 300.000 concittadini che vivono a Londra. Il 10 per cento di loro ha in programma il ritorno in patria: viene chiamato “Brexodus”. Complessivamente sono 3,7 milioni i cittadini dell’Unione europea che risiedono in Gran Bretagna, la maggior parte di loro da molto tempo. Ora sono tormentati dall’incertezza: «Dopo una Brexit dura manterremo il diritto di restare?», si domandano. Questa è una certezza solo per 1 milione di persone che sono registrate e vivono nel Paese da oltre 5 anni. Tutti gli altri devono registrarsi e attendere seduti sui carboni ardenti. Alcuni ottengono solo un permesso provvisorio. Il Primo ministro Boris Johnson gioca con la loro incertezza, li usa come ostaggi per le trattative con l’Ue. Il movimento “The 3 million”, che difende gli interessi della vasta comunità di immigrati dalla Ue, avverte: «L’abolizione immediata della libera circolazione delle persone porterebbe ad una discriminazione di massa di 2 milioni di cittadini europei». Seduti sui carboni ardenti vi sono anche 1,3 milioni di Britannici che vivono nei Paesi dell’Ue: se qui cominciano a essere trattati come stranieri e non più come cittadini comunitari, per loro la certezza del diritto di soggiorno viene meno. E l’assicurazione malattie costerà varie volte di più. La coalizione “British in Europe”, che raggruppa cittadini britannici che risiedono e lavorano in Europa, scrive, molto preoccupata: «I 27 Stati membri dell’Ue osserveranno naturalmente con attenzione come i loro cittadini verranno trattati nel Regno Unito». Ma questo non interessa affatto al Governo di Johnson. La grande incertezza che colpisce queste persone dimostra quanto sia centrale il diritto alla libera circolazione delle persone. Una certa sinistra sostiene che essa rappresenti soprattutto il diritto dei capitalisti di assumere personale senza alcun ostacolo. Questo è però un errore di valutazione che misconosce i diritti di 18 milioni di migranti europei. Anche l’unione sindacale britannica Tuc siede sui carboni ardenti: «Con una Brexit dura, Johnson avrebbe carta bianca per ridurre i diritti dei lavoratori»: per esempio sul fronte della durata massima del lavoro, delle ferie retribuite o dell’uguaglianza salariale uomo-donna, tutte conquiste che poggiano su direttive dell’Unione europea. Se queste dovessero cadere, spetterebbe al Parlamento britannico prendere nuove decisioni in materia. L’ex premier Theresa May aveva promesso di riprendere il diritto in vigore, ma Boris Johnson vuole deregolamentare: per lui i diritti dei salariati sono solo un bavaglio imposto dall’Ue. Si comporta come l’Udc in Svizzera, la quale pure vuole abolire la libera circolazione e gli accordi bilaterali con l’Ue allo scopo di allentare la protezione dei salari e dei lavoratori.
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