Il dibattito di idee in Svizzera rischia l’asfissia: è ostaggio di pesanti ipoteche politiche – demagogia populista, neo-conservatorismo autoritario, pensiero unico neoliberale –, ed è indebolito da approssimazioni e ritardi nell’analisi economica e sociale. Di fronte all’emergere tracotante di nuove forme dell’egoismo delle classi dominanti, il movimento sociale è appena all’inizio del processo di ricerca, identificazione e ricomposizione della moltitudine dei soggetti. Sintomatica la recente votazione sulla naturalizzazione, dove il confronto sui temi reali è stato vanificato da una sorta di abuso di potere degli avversari, in grado finanziariamente di condurre una campagna a tappeto. Da una parte ha palesato la forza di ricatto che, sulle spalle degli stranieri, può mobilitare l’apparato propagandistico populista: una vera gabbia ideologica, costruita negli ultimi anni dall’Udc e dai suoi fiancheggiatori. Dall’altra parte, soltanto il movimento multinazionale delle “secondas e secondos” ha saputo prefigurare l’emergenza politica e culturale di una concezione avanzata della cittadinanza, dentro la diversità della moltitudine. Popolo versus popolazione Il blocherismo non può certo essere ridotto alle sue espressioni propagandistiche più triviali e puntuali. È sostanzialmente un progetto di costruzione di un’alleanza politica neoliberale di centro-destra, sotto la direzione strategica dell’Udc; vuole spazzare via ciò che resta della “coalizione della ragione” – che include la destra moderata, il centro e la sinistra istituzionale – e l’eredità residua dello Stato sociale. Ma nella sua lotta per l’egemonia politica, il blocherismo continua a sfruttare spregiudicatamente la xenofobia contro chi non deve far parte del presunto popolo svizzero. Josef Lang, storico e consigliere nazionale dell’Alternativa di sinistra di Zugo, sottolinea la continuità della pratica discriminatoria, prima nei confronti degli ebrei, poi delle donne e da sempre verso gli stranieri. Contro gli “Svizzeri di carta” e la dilapidazione della cittadinanza elvetica, l’Udc erge dunque il muro del “popolo”, fondato sul diritto di sangue e su un concetto affastellato e mistificatorio di purezza etnica. Ciò vale soprattutto per la Svizzera tedesca e per le regioni rurali, dove le “Landsgemeinden” celebrano il mito maschilista, armato ed esclusivo del popolo elvetico e una democrazia fatta su misura in difesa dei suoi interessi. Nella Svizzera romanda e nelle grandi città, questa tradizione ha subito invece uno sviluppo speculare: sono la popolazione, il diritto del suolo, la società civile e quindi una concezione più vasta di cittadinanza a prevalere. È stupefacente costatare come la diversa tradizione democratica sia ancora una componente essenziale dei comportamenti elettorali; lo dimostra la geografia dei risultati delle due votazioni sulla naturalizzazione. Facendo leva sulla suggestione, che la trappola tradizionalista continua ad esercitare, e sull’insicurezza, che globalizzazione e fragilizzazione dei rapporti lavorativi e sociali provocano tra i meno favoriti, la macchina propagandistica dell’Udc ha giocato bassamente sui risentimenti anti-islamici, anti-“jugos” e via dicendo. Agitando lo spettro dell’apertura delle frontiere, dell’afflusso incontrollato di rifugiati (per definizione sospetti criminali e interessati soltanto a sfruttare le prestazioni assistenziali), puntando sull’attaccamento all’illusione utilitarista di un’immigrazione secondo i bisogni dell’economia, si è giunti ad un “no”, che colpisce chi è già di fatto svizzero. In verità la naturalizzazione agevolata della seconda generazione è stata respinta persino da molti cittadini con doppia nazionalità e naturalizzati recenti, soprattutto provenienti dei Balcani: il loro atteggiamento politico è per lo più nazionalista e egoista e sposa paradossalmente le posizioni Udc. Si frena così un processo d’integrazione comunque rafforzatosi negli ultimi anni e si cavalca addirittura l’abolizione della doppia cittadinanza: per l’Udc diventare svizzeri è sinonimo di abiura delle proprie origini. Anche se la Svizzera ufficiale continua a fingere di non essere un paese d’immigrazione, il nuovo strumentario legislativo si basa ormai sulla selezione mirata dei migranti con criteri geografici e professionali e sull’integrazione dei residenti. La politica migratoria si orienta principalmente sulla libera circolazione della forza-lavoro con i 25 paesi dell’Unione europea, privilegia in secondo luogo l’immigrazione di super qualificati dagli altri paesi e crea in terzo luogo un esercito di riserva di lavoratori precari e interinali per le mansioni stagionali e fluttuanti. Inoltre include di fatto nella valutazione dei bisogni del mercato del lavoro tutta la fascia di clandestini e “sans papiers”: rifugiati in attesa, candidati all’asilo respinti, “turisti” e via dicendo. Una miscela di filtri e deregolamentazione, che rende sempre più aleatorio il controllo dei minimi retributivi e apre le porte a dumping salariale e lavoro nero. Un disordine istituzionale che sarà proprio il consigliere federale Udc Christoph Blocher a governare; si suppone con mano di ferro, poiché è sua la volontà di gestire in modo unificato i dossier asilo e migrazione. Intanto il mito è salvo: la partecipazione politica non è un diritto per gli stranieri che sono cresciuti in Svizzera e sono perfettamente integrati: la si deve comperare e resta una concessione del popolo svizzero. L’egoismo di classe La politica migratoria è solo un esempio della gestione della mobilità nel nuovo contesto produttivo, che il capitale vuole consolidare. Obbedisce ad un orientamento non certo di concertazione e di partenariato sociale, ma di imposizione di un modello competitivo neoliberista a corto termine. L’alleanza intessuta sul pacchetto fiscale, poi bocciato dal popolo, tra il blocherismo, le grandi banche e Economie suisse ha configurato un blocco all’insegna dell’egoismo sociale della classe capitalista e manageriale. Certo, nel frattempo, vi sono state alcune scaramucce contro l’Udc, per la volgarità e il carattere oltraggioso e razzista di certe sue campagne (contro i topi della sinistra prima e i migranti poi); alcuni grandi dirigenti finanziari e industriali hanno platealmente firmato un appello a favore del partito radicale. Ma il disastro della bocciatura dello spazio economico europeo è ormai digerito ed il bilateralismo di prammatica: le divergenze sono probabilmente una questione di stile piuttosto che di sostanza politica. La volontà di spostare a destra il quadro partitico e istituzionale ha sponsor troppo importanti, perché sia semplicemente un dato contingente. Il gran patron dell’Ubs Marcel Ospel è stato, per esempio, il padrino dell’entrata in Consiglio federale di Christoph Blocher e Hans Rudolf Merz. Il finanziere Tito Tettamanti è stato tra i promotori di una ragnatela di iniziative giornalistiche, culminate con l’operazione pro-blocheriana del settimanale Weltwoche, e di messa in rete dei vari club della destra conservatrice. Infine Avenir Suisse, la fabbrica del pensiero neoliberale finanziata dalle multinazionali elvetiche, ha assunto il ruolo di rompighiaccio nell’elaborazione delle posizioni massimaliste del padronato. L’egoismo di classe di cui si parlava è l’affermazione arrogante della legittimità del trasferimento di ricchezza verso i detentori del capitale e il ceto dirigenziale. È il sacrificio imposto al tanto bistrattato ceto medio; è un sistema fiscale, che tende a gravare soltanto il reddito del lavoro piuttosto che quello del capitale e la sostanza, e a minimizzare gli effetti ridistributivi. Insomma un assalto all’investimento nell’innovazione, nel territorio, nella formazione e nella socialità, finora assunto dallo stato-nazione in funzione della giustizia sociale. Nonostante la difesa di rendite di posizione come il segreto bancario e malgrado la retorica nazionalista e l’ipocrisia populista delle forze politiche del patto neoliberale, per le auto-proclamate élites industriali e finanziarie la vera posta in gioco è l’inserimento senza ostacoli nel disegno capitalista transnazionale, nella rete della sovranità imperiale di cui parlano Toni Negri e Michael Hardt. Secondas e moltitudine Nell’ultimo decennio il quadro produttivo elvetico ha subito a ondate successive profondi cambiamenti. L’industria multinazionale è interessata in alcuni settori da un fenomeno d’emorragia continua e di svendita-riassetto a livello internazionale. Solo il ramo farmaceutico e delle scienze della vita ha mantenuto una forte presenza dei suoi quartieri generali nella regione basilese. In altri rami lo sviluppo segue la falsariga di alcuni cluster a forte connotazione regionale ed in preda a processi di ristrutturazione: chimica fine, agro-chimica, bio-tecnologie, tecnologie mediche, orologeria, microelettronica, residui dell’industria elettromeccanica, alimentare, ecc... Il settore finanziario, le banche e le assicurazioni restano i pilastri principali dei servizi; ma la piazza finanziaria sta scoprendo la fragilità della sua collocazione mondiale e della sua debole produttività comparata e inoltre deve incassare il declino strisciante del Private banking off-shore. Tutto ciò ha sconquassato i cardini del patto sociale elvetico: organizzazione fordista del lavoro, impiego a vita e patriottismo d’impresa. Progressivamente si è passati alla precarizzazione dei posti di lavoro e delle prospettive di carriera: insicurezza, mobilità forzata, individualizzazione e competizione generalizzata, disoccupazione, riconversione, lavoro autonomo, mobbing e stress. Insomma la deregolamentazione ha prodotto la necessità per molti di impegnare tutta la loro energia vitale e relazionale al fine di mantenere, cercare o inventare uno o più lavori. In un contesto di disgregazione delle vecchie certezze, di nascita di nuove interazioni reticolari e di cambiamento dei percorsi socio-professionali, le rappresentanze politiche e sindacali hanno subito un duro contraccolpo ed hanno avviato una stagione di riforme. Il corpo sociale è attraversato da processi di singolarizzazione e differenziazione, che permeano una moltitudine di soggetti. La loro ricomposizione possibile, in una prospettiva d’insorgenza della democrazia sociale dal basso, è la sfida attuale. Di fronte a mutamenti radicali e alla diffusa informatizzazione di tutto il lavoro, tra le novità più rallegranti vi è l’emergere dei movimenti della seconda generazione: i figli e i nipoti degli immigrati. I secondas e secondos esprimono una spinta venuta dal cuore della società, dai nuovi lavori cognitivi e culturali, dalla micro-imprenditorialità, da una concezione dinamica e costituente della partecipazione e della democrazia. Sono una realtà sociale assolutamente trasversale. Proprio in vista del voto sulla naturalizzazione, e nonostante la sconfitta subita, la loro affermazione e la loro capacità di trascinare con se molti svizzeri e alcune forze della sinistra istituzionale e sindacale e delle organizzazioni storiche dell’emigrazione indicano un percorso esemplare per i molti rivoli della moltitudine dei soggetti in una società post-fordista. Un tassello dunque di un movimento più generale per la cittadinanza: sul reddito, su uno spazio pubblico di dibattito e sui diritti sociali e politici; un superamento della cappa soffocante con cui il blocherismo vorrebbe imbrigliare la società.

Pubblicato il 

29.10.04

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato