In un articolo apparso sul Cdt dal titolo "Rinnovarsi, ma in quale direzione?" Manuele Bertoli affronta il tema della crisi dei partiti all'interno della crisi della politica. Lo fa con una serie di osservazioni condivisibili salvo, a mio parere, una quando scrive: «Non mi pare nemmeno che la società si attenda dai partiti un rinnovamento nel senso del ricupero del partito come luogo nel quale dibattere temi politici di fondo. Oggi la società tende piuttosto a rifuggire dalle occasioni di crescita culturale offerte dalle forze politiche vivendole come eventi partigiani, faziosi, propagandistici. Si preferisce che ad organizzare conferenze, dibattiti, confronti siano piuttosto altre agenzie della società lasciando ai partiti il compito di rappresentare poi nelle istituzioni le idee e le proposte che nascono nella società stessa». Non posso condividere questa affermazione per due motivi. Innanzitutto perché se è vero che il partito deve recepire i valori e gli interessi particolari che provengono dalla società civile, dall'altra il suo compito è proprio quello di confrontare tra di loro proposte diverse e spesso conflittuali per poi cercare quella mediazione che le trasforma in interesse generale. Il partito alla fine deve anche essere in grado di fare lui delle proposte alla società, di assumere un ruolo di guida, di infondere non solo emozioni effimere, ma anche passioni durature nelle scelte che la collettività è chiamata a operare. In secondo luogo perché il partito, per sé stesso prima che per la società, non può rinunciare ad una attività culturale in senso classico, intesa cioè come processo di sviluppo delle facoltà umane facilitato dall'assimilazione del lavoro di persone dotate di conoscenze teoriche e/o pratiche nettamente superiori a quelle medie. In definitiva i militanti di un partito, i suoi rappresentanti nelle istituzioni, la sua classe dirigente, gli aspiranti leader hanno bisogno di essere stimolati intellettualmente a fare scelte nuove per problemi nuovi, a immaginare nuovi orizzonti, nuove utopie. Non per realizzarle (che altrimenti non sarebbero utopie), ma per dare un senso più alto al duro lavoro quotidiano sui nostri piccoli problemi concreti.
Altrimenti si corre il rischio di rendere la politica una delle attività più noiose, dove l'unica motivazione diventa la lotta per un potere che non sai come utilizzare o che, diventato a un certo livello gratificante, cerchi solo di perpetuare o di utilizzare per un ulteriore salto di potere. Tutti rischi che anche i socialisti hanno conosciuto, Ticino compreso.
Penso che fare politica oggi sia più difficile di qualche decennio fa e penso anche che, per chi la fa onestamente, sia spesso un lavoro ingrato che chiede molto e offre poco e che, per di più è circondato dal discredito. Capisco che se ai compiti tradizionali di una direzione, i programmi, le elezioni, i comitati, i dibattiti, i rapporti con i media, il lavoro nelle istituzioni, aggiungiamo anche quello di organizzare degli incontri con relatori di prestigio su "temi politici di fondo" il carico di lavoro arrischia di diventare insopportabile. Capisco anche che far discutere la sinistra (che non sempre è in chiaro tra riforme e rivoluzione) sui "temi politici di fondo" è stato a volte in passato occasione di divisioni. Ma da lì a teorizzare la rinuncia a un lavoro di cultura politica c'è ancora un passo che credo sia meglio evitare di fare.

Pubblicato il 

29.06.07

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