L’immagine mitica di un passato diverso e migliore emerge soltanto nei periodi di acuta trasformazione sociale. È questa la riflessione a margine del bel lavoro di uno storico, Matteo Melchiorre, in un saggio dedicato alla morte di un albero, un olmo secolare, dalle parti di Feltre (Cfr. Requiem per un albero, Spartaco, 2004).
Un esempio di microstoria, tra diario di bordo e indagine giornalistica (così Franco Marcovaldi), per parlare dell’insana e tarda rivoluzione industriale subìta da uno dei tanti paesini della provincia italiana. Quanto più la vita materiale si muove, sembra dire lo storico, tanto più si ferma l’immagine del passato.
Io non so se il successo di una manifestazione come “Sapori e saperi” possa essere ricondotta a questa classe di eventi. Certo una relazione c’è, confermata dal bisogno di passato di certe coltivazioni, come mi è stato detto da un biocoltivatore.
Forse è ingeneroso pensarlo (e neanche troppo corretto), perché qui c’è di mezzo anche la lotta agli ogm, la battaglia contro le sofisticazioni alimentari, la salute pubblica o – detto in termini scientifici e più sontuosi – la bioetica.
Ma chi mi assicura che questo rinverdire il pensiero filosofico positivista secondo cui “L’uomo è ciò che mangia” non sia una mistificazione? Una nuova manipolazione?
Da dove viene la folla dei visitatori di “Sapori e saperi”? Da che cosa è mossa? Dal degrado del presente o dal sogno di un’età dell’oro?
Il sospetto è tanto più forte quanto più si accostino a questo discorso i troppi funerali della memoria che sono le feste di paese, complice perlopiù la stagione estiva. Feste e fasti che portano nelle corti e in scomodissime piazze acciottolate reliquie del passato: vecchi mestieri, artigianati scomparsi e materiali che travestono il futuro dei segni (e dei sogni) del passato, cui si accompagna spesso l’infingarda etichetta del “tipico”. Incontri festosi di nostalgici – loro malgrado –, che immaginano di poter vivere meglio grazie a messaggi (non sempre a contenuti) nuovi e allo stesso tempo antichi. Una etichetta (delle etichette) che, pur essendo frutto di impegno e di lavoro (si pensi, come dicevo sopra, alle ricerche intorno al biologico), mi fanno pensare a giochini neanche tanto onesti (né tantomeno inediti): e che come tali si sottraggono a qualsiasi intendimento etico.
Chi mi assicura che non siamo di fronte a nuove omologazioni? A nuovi feticci? A nuovi bisogni indotti?
È pur vero che nel coltivare la memoria sta la forza di una società – contro lo schiacciamento sul presente con quel che segue – ma, e se fosse una coltivazione interessata?
Siamo sempre appesi a un filo, dicevano le formiche di Gino e Michele nelle loro piccole incazzature; e io sono anche sovrappeso. |