La mano invisibile

Una miniera è stata l’immigrazione, fortuna e monopolio elettorali di qualche partito. Lo è sempre, ma a meno di sei mesi dalle elezioni federali c’è chi si è accorto che sull’onda di nuove sensibilità che emergono e in senso inverso a suoi atteggiamenti precedenti, sarebbe bene e forse pagante cavalcare il clima. Il partito liberale-radicale, sotto l’impulso della sua presidente Petra Gössi, sarebbe quindi arrivato alla «rivoluzione climatica», com’è stata definita. Se il clima è la terza preoccupazione degli svizzeri e se tra l’opinione pubblica si attribuisce la responsabilità del fallimento della legge sulla limitazione del CO2 all’Udc e al Plr, legge talmente edulcorata da risultare  superflua, non si può far finta di niente e si è anche costretti a giustificarsi. La domanda-Gössi: «Come persone responsabili, possiamo disinteressarci dello stato del mondo in cui crescerà la prossima generazione?». La risposta: «Rispondere con un sì significherebbe o essere egoista o essere ignorante».

 

E fin qui si può essere d’accordo, felici per l’illuminazione. La ricetta lascia dubbi sulle vere intenzioni: «La responsabilità individuale dev’essere al centro della nostra posizione e la politica ambientale dev’essere una politica economica». Che la responsabilità individuale sia importante è ovvio; che la politica ambientale dev’essere una politica economica sa ancora di fuga per la tangente o per quietare gli allarmati (bene annidati nel partito dell’economia) o per cambiare affinché nulla cambi.


Sinora in Svizzera (come altrove) al problema del clima o della protezione dell’ambiente si è risposto con un triplice atteggiamento: è giusto, ragionevole e responsabile preoccuparsi dell’ambiente; è altrettanto opportuno commisurare costi e mezzi, obiettivi e tempi di intervento, per non provocare danni alla crescita economica, non rovinarci la competitività con fiscalità, costi e burocrazia, non mettere a repentaglio le finanze pubbliche, non intaccare il benessere. Il problema è comunque mondiale e non si può giocare ai cavalieri solitari, è utopistico (o ci fa il “dindon de la farce”, detto francese sistematizzato da Trump: altri approfittano della nostra responsabilità-ingenuità).


Prima l’economia, l’ecologia seguirà, quindi. La considerazione di fondo, lo stesso dibattito pubblico che sembra aver ripreso vigore grazie a iniziative particolari e di massa che puntano proprio sulla responsabilità individuale e su piccoli accorgimenti che potrebbero mutare alcune cose (le posate di plastica), le improvvise conversioni partitiche cariche di rese elettorali, si muovono di fatto sempre intorno ai problemi del mercato, all’idea che si potrà risolvere tutto correggendo alcuni comportamenti e soprattutto rendendo sempre economicamente vantaggiosa la produzione detta sostenibile.


Forse, implicitamente, si deve riconoscere che il cambiamento climatico è il fallimento del mercato o una sua cattiva gestione. Che si possa quindi uscirne adottando giuste strategie di vendita e affidandosi alle responsabilità di impresa o dei  consumatori, senza molto Stato. La crisi ecologica lo è però soprattutto in quanto prodotto dell’espansione del capitalismo, del modello di vita e di organizzazione della società, del sistema di sfruttamento del lavoro e della natura su cui è costruito, dell’esigenza di accumulazione e crescita che caratterizza il ciclo del capitale (già datosi alla “finanza verde”), dell’estinzione graduale che si è operata dei beni comuni naturali e dei servizi pubblici, privatizzandoli. Siamo giunti al riconoscimento di tutto questo?

Pubblicato il 

09.05.19
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