La flessibilità dovrebbe far pensare ad una condizione positiva, alla capacità di adattamento alle situazioni che mutano. Ma questa elasticità, riportata sul piano lavorativo, è diventata viepiù sinonimo di accettazione supina di regole che travalicano una condizione lavorativa rispettosa dei tempi e della salute dell’individuo e coincide oramai con il tirare sempre più la corda, con l’adattamento a ritmi concitati, con la competitività sfrenata e con la precarietà occupazionale. La flessibilità è la fonte principale del forte stress che negli ultimi anni una percentuale sempre più preoccupante di lavoratrici e lavoratori pagano in termini di salute fisica e mentale. Di loro si occupa il Laboratorio di psicopatologia del lavoro (si veda il riquadro), coordinato dallo psichiatra Michele Tomamichel, direttore medico del settore Sottoceneri dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale, al quale abbiamo posto alcune domande sul servizio. Dottor Tomamichel, a che punto del percorso si ritrova il Laboratorio dopo otto mesi di vita? Siamo in una fase di studio, che mira alla comprensione delle correlazioni esistenti fra lavoro e salute. Lo scopo è quello di vedere cosa è successo negli ultimi anni riguardo le modalità di manifestazione del disagio fisico e soprattutto psichico. Abbiamo l’impressione che i criteri utilizzati finora per definire il disagio non siano più attuali di fronte all’insorgenza delle recenti e nuove forme di malessere, ragion per cui si sta rendendo necessario un mutamento nelle modalità di valutazione di cosa sia oggi la sofferenza e di come si manifesta. Sempre più infatti si constata come i cambiamenti nel mondo del lavoro stiano modificando l’individuo e anche le espressioni della sua sofferenza. Come procede concretamente la vostra ricerca? Attraverso la raccolta d’interviste, testimonianze di persone che soffrono o hanno sofferto a causa del loro lavoro. Queste persone possono scegliere se raccontare la loro esperienza davanti al gruppo del Laboratorio (si veda articolo sotto), oppure essere video-registrate o ancora soltanto audio-registrate. Dopo averle ascoltate, si avvia una discussione sulla loro testimonianza cercando di capire quali sono stati i fattori che le hanno condotte a quello stato di malessere. Fino a quando continuerà la fase “esplorativa”, di studio del fenomeno? Pensiamo fino alla fine dell’autunno, quando contiamo di avere raccolto un numero indicativo – se non rappresentativo – di esperienze attraverso le quali ritrovare un fil rouge che metta in collegamento le diverse patologie e ci possa fornire un quadro d’assieme della situazione. Ad elaborazione avvenuta ci proponiamo, per la primavera 2006, di cominciare a studiare delle risposte ad hoc per quelle persone che si ritrovano in una situazione di disagio da un punto di vista medico-somatico-psicologico, non trascurando quello che è l’aspetto fondamentale del loro reinserimento nel mondo lavorativo. Pensate di creare una sorta di presidio specialistico a cui potersi rivolgere in futuro? Sì, vorremmo dare vita in futuro ad uno spazio con i vari “specialisti” del Laboratorio che a turno si mettano a disposizione di chi ne ha bisogno. Al momento si tratta solo di un’idea. Sono passati due anni da quando a Lugano si tenne un convegno sulla “Sofferenza al lavoro”: già allora lei dichiarò in un’intervista ad “area” che i costi in termini di salute mentale e fisica dovuti allo stress lavorativo avevano subito un’impennata. E oggi, com’è la situazione? C’è stato un peggioramento della situazione a cui ha, in parte, contribuito anche la riduzione dei giorni d’indennità di disoccupazione che ha portato ad un aumento dei casi in Assicurazione invalidità, ossia di persone che accusano sintomi di malessere psichico o fisico. Senza generalizzare il problema, posso dire che la depressione è uno dei disturbi conseguenti alle pressioni sul posto di lavoro. È infatti in crescita il numero delle persone che si rivolgono ai medici generici o agli psichiatri perché cadute in depressione a causa della perdita del posto di lavoro o del ruolo che avevano all’interno dell’ambito occupazionale e familiare. Esiste una tipologia di persone più esposte di altri al rischio di ammalarsi? È una delle domande a cui il Laboratorio vorrebbe dare una risposta: capire perché alcune persone cedono in condizioni di stress ed altre riescono a padroneggiarle. Tenendo conto però che oggi i datori di lavoro tendono ad essere meno attenti ai bisogni dei dipendenti, preoccupati come sono di far “quadrare i conti”. In un ambito del genere è molto probabile che anche un individuo sano sia più esposto al rischio di sofferenza. Riconoscere il proprio disagio psichico non è facile in un ambiente dove il disagio psichico incute paura o imbarazzo. Riescono oggi le persone a chiedere aiuto? Il fatto stesso che vi siano persone disponibili a fare delle interviste per il nostro Laboratorio, o che si rivolgano ai medici, significa che qualcosa è cambiato in questo senso. Ma è possibile proteggersi da un tracollo incombente se si riconosce di essere sottoposti a forti pressioni sul posto di lavoro? Come tutte le malattie, se riconosciute in tempo sono più facili da curare. Prendiamo, per esempio, il “burn out” (esaurimento nervoso, tracollo, ndr) che si manifesta come un’evoluzione nel tempo: se i segnali vengono individuati al loro insorgere si può intervenire senza che la situazione degeneri. Il problema è che il più delle volte la persona è in una morsa di ritmi tali che non può o non vuole fermarsi e così va avanti, fino a quando la malattia non la costringe a farlo, a volte in modo drastico. box Da un’inchiesta dell’Ufficio federale di statistica (inchiesta sulla salute 2002, “Stress e precarietà nel mondo del lavoro compromettono la salute”, pubblicata il 31.10.2003 sul sito www.bfs.admin.ch) risulta infatti che il 44 per cento della popolazione attiva (di cui il 47 per cento uomini e il 41 per cento donne) soffre di una forte tensione al lavoro. A peggiorare la situazione subentra l’insicurezza crescente del mondo occupazionale dove sono sempre più frequenti i licenziamenti di massa o il lavoro su chiamata. Numerosi i sintomi denunciati da chi subisce una situazione pressante sia sul piano fisico che psichico: mal di schiena, alla testa e al petto, palpitazioni, problemi di sonno o di digestione, irritabilità, nervosismo o depressione. Una situazione preoccupante sulla quale si sta cercando d’intervenire creando una rete di sostegno. Dal gennaio 2005, a questo proposito, è nato in Ticino il Laboratorio di psicopatologia del lavoro, finanziato dal Fondo nazionale svizzero e creato su mandato del Dipartimento sanità e socialità. Vi collaborano una ventina di professionisti che hanno a che vedere con problemi e tematiche legate in parte al mondo del lavoro e in parte al mondo della salute. Tra loro medici generalisti internisti, medici psichiatri, psicologi, economisti, infermieri, professionisti che operano nell’Ufficio del lavoro, in particolare nel campo delle misure attive e dell’Assicurazione invalidità (Ai). I tessuti e le trame delle storie di chi giunge al Laboratorio di psicopatologia del lavoro per chiedere aiuto hanno sfumature e tonalità diverse ma tutte sono attraversate dal fil rouge della sofferenza maturata nel loro ambiente lavorativo. Eccone due emblematiche. Negli ultimi anni Giuliana* si ammalava sempre in vacanza. L’unico momento in cui la tensione si allentava il carico di stress e la pressione che in tutto il resto dell’anno subiva al lavoro si rovesciava travolgendola come un fiume in piena. Per oltre un ventennio ha operato presso un’azienda in Svizzera accusando negli ultimi tempi gli effetti di quella che ormai comunemente si chiama flessibilizzazione del lavoro. Amava la sua professione perché le permetteva un contatto con la gente, racconta di quando le chiedevano un’informazione e poi s’intrattenevano a parlare con lei, come fosse una piccola succursale di “telefono amico”. Ora non c’è più spazio per questi contatti umani, c’è solo la tabella di marcia: non più di una manciata di secondi per ogni richiesta. «Meno tempo impieghi e più le tue prestazioni risultano gradite e quotate presso l’azienda», dice. Giuliana non sempre riesce a rientrare nei parametri. Non se la sente di liquidare in fretta e furia, ad esempio, l’anziano che fa fatica ad afferrare ciò che lei dovrebbe spiegargli in un batter d’occhio e di lasciarlo in balia di un automatico. Ma questa umanità di Giuliana mal si coniuga con le ferree leggi aziendali. O sei dentro i parametri o il sistema ti espelle, a meno che non sia tu a tracollare per prima e ad andartene. “Realizzarsi al lavoro”, un’espressione che per Giuliana ha perso completamente di significato quando in ufficio tutto ha cominciato ad essere scandito al ritmo di parole d’ordine come “raggiungere gli obiettivi”, “aumentare la produttività”. Sotto il peso di un pressante controllo, Giuliana si è ritrovata a non riuscire a reggere più la situazione lavorativa e a star male. Le si manifestano i primi sintomi come disturbi di sonno e ormonali. Con l’arrivo del primo figlio poi le cose diventano ancora più difficili: può sì contare sul sostegno del suo compagno ma il suo malessere aumenta quando si rende conto che sempre più le tensioni lavorative gravano anche sui suoi rapporti affettivi. Sentendo che le cose stanno andando alla deriva, Giuliana decide di proteggersi, e chiede aiuto psicologico. Pur disillusa riguardo ad un possibile miglioramento del clima lavorativo – «nel lavoro non cambierà niente», dice – spera almeno di avere un sostegno che l’aiuti a non crollare. Diversa nella sua evoluzione ma simile nella sofferenza è la storia di Luigi*, un giovane venticinquenne assunto in Italia da una grossa società che si occupa di nuovi media. Un ambiente tutto di giovani, laureati, professionisti specializzati. Luigi, nonostante la giovane età, ha alle spalle un buon curricolo professionale e il nuovo lavoro gli appare come un’opportunità da cogliere al volo: è creativo, ha a che fare con la configurazione di siti internet, insomma si occupa di ciò che desiderava. Ma non passa molto tempo che la realtà dell’ufficio lo investe come una doccia fredda: ognuno pensa per sé, la competitività è l’unica forma di contatto fra i colleghi che alla mattina neanche si degnano di un saluto. Un posto dove – dice - «farebbero carte false per arrivare a certe posizioni», senza nessuna remora se questo potrebbe significare “schiacciare gli altri”. Non è facile resistere in un posto dove si lavora dalle 10 alle 14 ore al giorno, dove al minimo inciampo c’è chi ne approfitta per scavalcarti. E come si può lavorare serenamente in un ambiente dove, come se fossi alle elementari, ricevi le valutazioni del tuo lavoro in una sorta di pagellina? Inspiegabilmente, dopo qualche mese Luigi comincia ad essere travolto da una stanchezza cronica, non riesce più a concentrarsi, fa fatica a trattenere le informazioni. A fine mandato riceve una valutazione insufficiente e così, dopo tre mesi, decide di licenziarsi: il peso del malessere è insostenibile. Da qui la trafila di esami medici per capire. Si sente depresso e apatico e gli viene diagnosticata la sindrome astenica-cronica o sindrome d'affaticamento cronico. Il suo disagio si accentua quando si rende conto di essere circondato dall’incomprensione, quando capisce che il suo malessere viene recepito dai colleghi, amici e conoscenti come una forma di ozio professionale. La sua malattia richiede del tempo per guarire, lo stato di prostrazione provato durante il periodo lavorativo gli ha lasciato dei segni. Ora vorrebbe riprendere ma capisce che deve avere pazienza. Non deve rischiare di “bruciarsi”, gli dicono gli specialisti. E ciò che Luigi desidera è poter lavorare serenamente, esprimere la sua creatività senza doversi preoccupare ogni cinque minuti di poter essere pugnalato alle spalle. __________________ *Per proteggere la privacy dei protagonisti i nomi sono stati inventati e indicati genericamente i posti di lavoro in cui i protagonisti operano o si sono ritrovati ad operare.

Pubblicato il 

09.09.05

Edizione cartacea

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