Se il capo ti spia

«Nella vita di tutti giorni non siamo tenuti a portare un cartello con il nostro nome o a registrarci all’edicola quando comperiamo il giornale. Dovremmo pertanto poter decidere noi stessi quando vogliamo essere riconosciuti e quando no». Con un’immagine di vita quotidiana Jürgen Bäumler, incaricato per la protezione dei dati dello Schleswig-Holstein (cfr. “Strittig Anonymität”, n. 19/ 2002, p. 127), spiega il diritto alla privacy in un momento in cui riuscire a proteggersi da una sorveglianza onnipresente è diventata un’ardua impresa. La nostra vita è sempre più esposta a logiche di interessi commerciali, produttivi, di dominio. Il mondo del lavoro ne è un esempio. Qui la tecnologia può permettere a chi tiene le redini di un’azienda di controllare i dipendenti ficcando il naso laddove un corretto rapporto lavorativo non lo consentirebbe. Sapere è potere e niente dà più potere che conoscere le nostre abitudini, gusti, idee attraverso una miriade di nostre tracce. Siamo dei Pollicini inconsapevoli: con le nostre carte di credito e col nostro vagare in Internet lasciamo segni, sassolini luminosi, che ci espongono alle insidie di un potere chiamato controllo. Proprio come nel film di fantascienza, la società di “Matrix” sembra aver messo le fondamenta nella nostra realtà. Basta andare a sbirciare cosa succede in seguito a gesti apparentemente innocui come navigare in Internet, entrare in un supermercato o comprare con la carta di credito. Per scoprire che quei gesti, che noi pensiamo persi nella nebbia dell’anonimato, in realtà lasciano tracce nitide, raccontano pezzi della nostra storia o, in certi casi, forniscono la chiave d’accesso alla nostra vita privata. Già nel 1932 lo scrittore Aldous Huxley, aveva descritto nel suo “Il mondo nuovo”, una società in cui la tecnologia diventa il lungo braccio del potere e dove gli uomini sono creati, clonati, senza volontà e spirito d’iniziativa, allo scopo di servire a qualcosa di già predefinito. Un profezia, quella di Huxley, che sta diventando drammaticamente vera. Ogni giorno di più in nome dell’efficienza, della nostra sicurezza o del miglioramento della comunicazione, forme sempre più insidiose (perché solo una mano esperta può rilevarle o localizzarle) di controllo minano la nostra privacy e la nostra indipendenza. Comprensibile quindi una certa apprensione che ne può susseguire al sapere di poter essere prede inconsapevoli di cacciatori di dati o quant’altro. Tanto più che in questa vertiginosa evoluzione tecnologica il lento apparato legislativo fa fatica ad orientarsi per disciplinare la materia e reprimere gli abusi. Un problema questo che è stato oggetto del quinto convegno di “Tecnologia e Diritto” della Scuola superiore di informatica di gestione (Ssig) di Bellinzona sul tema “Controllori e controllati – La privacy dell’azienda e dei suoi collaboratori nell’era delle reti”. Anche la Ssig con i suoi convegni annuali (gli incontri si tengono dal 1999) offre il suo contributo in materia riunendo esperti a vari livelli che possano indicare piste su cui potersi muovere «in attesa di una convincente soluzione a livello legislativo». La materia è di estrema importanza se pensiamo che poi dal lato pratico ci concerne, in un modo o nell’altro, tutti. Tutti potenzialmente esposti alla longa manus di interessi e poteri mimetizzata nella tecnologia che accompagna quotidianamente la nostra vita. La migliore difesa è sensibilizzarsi sui pericoli Che lo vogliamo o no, siamo tutti sorvegliati, figli di una società del controllo. Le nuove tecnologie sono un Giano bifronte, velocizzano il nostro lavoro fungendo al contempo da strumenti di subdola oppressione. Come porre degli scudi di protezione? A chi chiedere in casi di abusi sospettati? Sono alcune delle domande che abbiamo posto a Giordano Costa, giurista e collaboratore scientifico presso l’Incaricato federale per la protezione dei dati, nonché esperto in questioni di lavoro, che è stato lo scorso 20 maggio uno dei relatori al convegno organizzato dalla Ssig a Bellinzona (si veda articolo sopra). Qual è il ruolo dell’Incaricato federale per la protezione dei dati? Si tratta di un organismo che ha il compito di seguire e consigliare tanto gli organi federali quanto le persone private (fisiche e giuridiche) in materia di protezione dei dati. Gli ambiti di sua competenza spaziano dal settore del lavoro a quelli delle assicurazioni, banche, aviazione, sette religiose, ecc... Mi riferisco anche all’esportazione di dati all’estero, tema sempre più attuale, alle multinazionali che tendono a centralizzare il trattamento dei dati personali in un sito particolare dislocato, ad esempio negli Usa, dove ha sede la società madre. Questo è uno tra i molti problemi che ci vengono sottoposti nel nostro lavoro. In sostanza, l’Incaricato può essere sollecitato ad intervenire in ogni settore interessato dalla Legge sulla protezione dei dati. Parliamo di una legge che tocca qualsiasi attività privata o pubblica che abbia a che fare con dati personali. Oggigiorno tutto ha a che fare con la questione dei dati. Dalle carte di credito alle carte fedeltà nei grandi magazzini, dalle casse malati alle inchieste telefoniche, ecc. In casa o al lavoro, chi più chi meno, le persone ormai utilizzano il Pc e navigano in Internet esponendosi a pericoli sconosciuti. Può indicarci quali sono i pericoli più comuni? È una domanda vastissima. Non per niente per dare una risposta esaustiva, abbiamo pubblicato una nuova guida di una sessantina di pagine… I pericoli più evidenti riguardano, ad esempio, la sorveglianza abusiva sui luoghi di lavoro (il datore di lavoro che spia, perlopiù all’insaputa del dipendente, in modo più o meno sistematico e con strumenti estremamente sofisticati, qualsiasi attività svolta non solo su Internet ma sul Pc in generale). Questo significa che, potenzialmente, tutti i lavori eseguiti con il Pc potrebbero venir protocollati, visionati, registrati, analizzati o mandati in copia a terzi in modo sistematico. Con i suoi strumenti sempre più raffinati e defilati, il Grande Fratello è davvero onnipresente? O è questa una visione esasperata della realtà? È la realtà. Si sta cercando di correre ai ripari ma oramai – più o meno inconsapevolmente – siamo sorvegliati in buona parte della nostra giornata. Posto di lavoro, stazioni, treni, strade, autostrade, supermercati ecc. sono tutti luoghi dove siamo costantemente sotto controllo. Oltre al Grande Fratello rappresentato dallo Stato che ci osserva in diversi modi, abbiamo anche a che fare con una miriade di Piccoli Fratelli che ci osservano nei differenti aspetti della nostra vita. Crede ci sia un modo per fermare questo tipo d’invisibile aggressione? Non esiste uno strumento specifico. Il modo sta nel non accettare supinamente questo stato di cose. La gente sta reagendo e – prima o dopo – chiederà una frenata, una limitazione di queste tecnologie di sorveglianza. I segnali sono già evidenti. Noi siamo sommersi da richieste di questo genere e ciò significa che la sensibilizzazione al problema (che rimane la migliore difesa) sta prendendo piede. Le barriere all’avanzare di questa pericolosa tendenza nascono dall’esperienza quotidiana. Quando una persona è vittima di una sorveglianza,si attiva per contrastarla, denunciandola, e in questo modo si sta già ribellando. Mette in atto un meccanismo che, prima o dopo, stimolerà il legislatore a pronunciarsi in merito e a promulgare norme a difesa dell’individuo. Al momento, Codice delle obbligazioni e Leggi sulla protezione del lavoratore, a mio modo di vedere, non sono più adeguati a coprire i problemi sempre più complessi legati alla sorveglianza. Manca inoltre una giurisprudenza del Tribunale federale in merito. In ultima istanza, può darci un consiglio che sia alla portata di tutti? Tanti dati personali vengono distribuiti perché noi ci fidiamo. Bisogna smetterla di fidarsi ciecamente; bisogna cominciare a mettere in dubbio quanto si trova su Internet; bisogna essere scettici e pensare a quanto si sta facendo. Tutto questo, però, è un processo che richiede tempo.

Pubblicato il

13.06.2003 01:00
Maria Pirisi