Se anche la Svizzera sogna

"Il sogno è finito". Così hanno titolato i giornali svizzeri all'indomani della sconfitta della nazionale contro l'Ucraina agli ottavi di finale dei mondiali di calcio. E in effetti davvero è sembrato che per alcune settimane i calciatori svizzeri abbiano tenuto in una bolla dorata tutto il paese, facendolo volare in un'euforia quasi irreale. Il risveglio dal sogno è dunque stato molto amaro, almeno quanto le lacrime versate sull'erba di Colonia da Ludovic Magnin.
Certamente i mondiali di calcio sono un evento straordinario. Ma questo non spiega la partecipazione degli svizzeri per la loro nazionale, simile a quella di paesi ben più malati di tifo calcistico. Una spiegazione sta nel "sogno" dei titoli di giornale: anche la Svizzera ha avuto bisogno di sognare, di uscire dalla quotidianità, di dimenticare collettivamente gli affanni di un paese un tempo viziato dalla sorte e oggi ancora fortunato sì, ma non più così sereno.
Come non ricordare gli anni delle sconfitte onorevoli della nazionale? Erano gli anni '70 e '80, nei quali la Svizzera era un'isola felice che di sogni non ne aveva bisogno. La nazionale giocava in stadi semivuoti e tristi davanti a qualche pensionato. Se si perdeva, come spesso accadeva, ci si consolava pensando che comunque noi, gli sconfitti, stiamo meglio di loro, i vincitori. Ed era vero. Oggi potremmo ancora dirlo con altrettanta certezza? Abbiamo lasciato a Monaco e Liechtenstein il privilegio delle sconfitte onorevoli: se oggi la Svizzera perde se ne va un pezzetto di benessere collettivo. Siamo diventati un po' più uguali agli altri.
Ma anche la composizione della nazionale ci dice che la Svìzzera è cambiata. Quella delle sconfitte onorevoli era una squadra in cui le stelle erano Lucio Bizzini, Claudio Sulser o Roger Berbig. Bravi calciatori sì, ma per i quali il calcio non era la vita: tutti e tre erano studenti, il primo voleva diventare psicologo, il secondo avvocato, il terzo medico. Insomma, giocavano per hobby, ma la vita è un'altra cosa.
Oggi non è più così. Anche in Svizzera il calcio è diventato un modo per tentare la scalata sociale, per garantirsi un futuro più sereno. Lo sa un Valon Behrami, che senza il calcio oggi vivrebbe in Kosovo con tutta la famiglia. E lo sanno un Tranquillo Barnetta o un Philippe Senderos, che da quando sono piccoli vedono i sacrifici fatti dai genitori per tirare avanti e non vogliono doverli ripetere. La rabbia che mettono in campo e che li fa vincere viene da dentro ed ha radici profonde. È una rabbia che tradisce voglia di riscatto, comune a migliaia di campetti di periferia sparsi qua e là per il mondo. Tranne che a Monte Carlo e a Vaduz.
La nazionale svizzera di calcio dunque come specchio del paese, e in una misura insospettabile. Una Svizzera oggi un po' meno serena e un po' più dolente, con a volte un gran bisogno di sognare, perché la vita sa essere dura. Ma una Svizzera molto più vera che in passato.

Pubblicato il

30.06.2006 00:30
Gianfranco Helbling