"Sciopero? Non s'improvvisa"

Trentamila persone in piazza a Berna il 20 settembre contro lo smantellamento delle pensioni. E poi? Come capitalizzare quel successo? Come organizzare nei prossimi mesi la lotta sul piano politico e sociale non solo per la difesa ma anche per il rafforzamento dello Stato sociale, sistema previdenziale in testa? Basta il referendum lanciato dall’unione sindacale svizzera e dal Partito socialista svizzero contro l’undicesima revisione dell’Avs? O, come gridavano a gran voce i manifestanti giunti dal Ticino a quella manifestazione, lo sciopero è l’unica arma efficace di cui dispongano i lavoratori, da indire già per il 4 novembre, giorno dello sciopero vittorioso degli edili dello scorso anno? Ne parliamo con Jacques Robert, il combattivo vicepresidente del Sindacato edilizia e industria (Sei). Jacques Robert, contro lo smantellamento del sistema pensionistico svizzero lo sciopero è un’opzione possibile? Nell’Uss se ne discute? Se ne discute poco. Per me è un’opzione possibile, forse necessaria. Il problema è quando. Uno sciopero il 4 novembre non è un’opzione possibile: perché, considerata l’importanza della posta in gioco, se si organizza uno sciopero nazionale su questo argomento deve assolutamente avere successo. Per questo ci vuole un tempo sufficiente di preparazione. D’altro canto dobbiamo anche definire i nostri obiettivi perché, ad esempio sul futuro del secondo pilastro, non la pensiamo tutti allo stesso modo. Solo dopo che avremo fissato i nostri obiettivi comuni è possibile che si arrivi alla conclusione che lo strumento più indicato per raggiungerli sia lo sciopero. Ma non è strano che alla manifestazione del 20 settembre nessuno abbia pronunciato la parola "sciopero" come possibile opzione? I numerosi colleghi ticinesi presenti l’hanno gridata forte e chiaro più volte. La parola sciopero è però stata completamente assente dai discorsi ufficiali. È vero, anche se Vasco Pedrina l’ha implicitamente lasciata intendere. Ma la decisione di indire uno sciopero nazionale dev’essere una decisione democratica. Se avessi fatto un discorso il 20 settembre non so se avrei lanciato un appello allo sciopero. Avrei probabilmente detto che bisogna preparare una resistenza popolare, una resistenza che comprende la possibilità di uno sciopero. Ma lei la parola "sciopero" l’avrebbe pronunciata. Sì, ma torno a ripeterle: uno sciopero si prepara, non si improvvisa. Certo oggi c’è un attacco chiaro e netto di stampo neoliberale che è diretto anche contro la pace sociale: e contro attacchi così gravi ci vogliono risposte appropriate ed efficaci. Fra queste, appunto, occorre considerare anche lo sciopero. Ma uno sciopero deve riuscire: perché uno sciopero mancato si rivelerebbe del tutto controproducente. Contro l’undicesima revisione dell’Avs è stato lanciato il referendum da parte dell’Uss e del Pss. Questo referendum è dunque l’elemento più importante della lotta contro lo smantellamento del sistema pensionistico? Non direi. È solo lo strumento più immediato. D’altro canto l’Avs è la chiave di volta del nostro sistema di assicurazioni sociali, e la sua messa in discussione equivale ad una messa in discussione di tutto il nostro sistema di sicurezza sociale. Si tratta di un nuovo attacco di matrice neoliberista al ruolo redistributore dello Stato, e questo attacco non può rimanere senza risposta. Ma accanto al referendum contro l’undicesima revisione dell’Avs vi sono altri assi d’azione altrettanto importanti: il rafforzamento dell’Avs a scapito del secondo pilastro, con tra l’altro la richiesta della tredicesima rendita mensile (che ha il pregio di prendere in contropiede le misure d’austerità); la resistenza agli attacchi (molto frequenti in questa campagna elettorale) contro l’Assicurazione invalidità; l’opposizione allo smantellamento del secondo pilastro come lo vuole la destra (abbassamento dei tassi di rimunerazione e di conversione, esclusione dei bassi redditi); la rivendicazione del pensionamento flessibile, che può trovare posto sia nell’ambito dell’Avs che nell’ambito di istituzioni di previdenza ad hoc come quella creata per l’edilizia; il lancio di un’iniziativa per essere di nuovo offensivi su questi temi, sul cui contenuto (età, estensione del prepensionamento e finanziamento) dobbiamo però ancora trovare un consenso. Insomma, è fondamentale la mobilitazione sociale per rispondere alla pretese difficoltà di finanziamento del nostro sistema previdenziale. Couchepin sostiene che non potremo più permetterci a lungo un’età di pensionamento a 65 anni. Il suo è stato un colpo comunicativo scaltro, per ribattere in anticipo al referendum contro l’undicesima revisione dell’Avs: ha posto come tema la necessità di garantire il finanziamento delle assicurazioni sociali, ora sta a noi smontare questo teorema. La sua è una posizione comune e chiaramente concertata a livello europeo. Certo si sta forse ponendo un problema per il progressivo invecchiamento della popolazione, ma non si vede perché ci debba essere negli Stati più avanzati questa unanimità per l’innalzamento dell’età di pensionamento. Altre unanimità sarebbero pensabili e possibili: un finanziamento delle assicurazioni sociali tramite la fiscalità, dei sistemi di pensionamento flessibili, un sostegno alla crescita e così via. Sarebbero tutte soluzioni che, se concertate, non porrebbero problemi di concorrenza fra i diversi Paesi coinvolti. C’è una strategia sindacale comune a livello europeo su questi punti? Per quel che concerne l’opposizione all’aumento dell’età di pensionamento e il mantenimento del livello attuale delle rendite direi di sì. Le cose si complicano se si discute del ruolo da dare alle casse pensioni e al sistema di capitalizzazione. Ma queste divergenze d’opinione ci sono anche in Svizzera. Le opzioni più immediate d’azione e di mobilitazione che lei ha indicato sono tutte di tipo politico: referendum e iniziativa. Per loro natura esse tendono ad escludere i lavoratori stranieri, che erano presenti in massa a Berna il 20 settembre. Lo sciopero non è un modo per rendere partecipi anche gli immigrati alla lotta in difesa dello Stato sociale? Non è vero che ho indicato solo opzioni politiche. Ho parlato anche dell’abbassamento dell’età di pensionamento. Il tentativo fatto nell’ambito dell’Avs abbiamo visto che risultati deprimenti ha dato. Ma l’abbassamento dell’età di pensionamento lo si può ottenere anche con delle lotte sociali nell’ambito dei contratti collettivi. Questa è probabilmente oggi l’opzione più rapida ed efficace, come dimostrano il successo nell’edilizia principale e i passi avanti fatti nell’orologeria. Il problema di questa strategia è che per forza di cose non considera i salariati e le salariate dei settori non organizzati. Sta insomma alla lotta sindacale nelle imprese affrontare e risolvere un problema che i politici a Berna non vogliono affrontare. E a questa lotta possono partecipare anche gli immigrati. Perché i sindacati italiani hanno immediatamente proclamato lo sciopero generale contro l’innalzamento dell’età di pensionamento, mentre in Svizzera si è così prudenti nel valutare questa opzione? È un dato di fatto che l’uso che si fa in Svizzera degli istituti della democrazia diretta condiziona anche la lotta sociale. E d’altro canto da 65 anni abbiamo un’abitudine al consenso sociale che in qualche modo condiziona anche le scelte strategiche. Questo credo che spieghi abbastanza bene le differenze nell’azione fra i sindacati svizzeri e quelli italiani. Si può però certamente discutere dell’efficacia dei metodi di lotta tradizionalmente impiegati in Svizzera, soprattutto di fronte alla violenza dell’attacco al nostro sistema di sicurezza sociale. Ma il 24 ottobre l'Italia si ferma di Loris Campetti Tornano a parlarsi e a scioperare insieme le confederazioni sindacali italiane. Almeno per un giorno, il 24 ottobre, Cgil, Cisl e Uil mescoleranno le loro bandiere nelle piazze, contro la politica economica e sociale del governo Berlusconi. A parte l’euromanifestazione del 4 ottobre, promossa dalla Ces (cfr. area n. 41 del 10 ottobre), erano mesi che la Cgil si ritrovava da sola a protestare, per esempio con i metalmeccanici della Fiom contro il contratto bidone firmato separatamente da Fim e Uilm con i padroni di Federmeccanica; per esempio contro il Patto per l’Italia siglato da Cisl e Uil con Confindustria e governo, da cui ha preso origine la legge 30 (detta “legge Biagi”) che precarizza e liberalizza un mercato del lavoro già flessibilizzato oltre misura dai governi di centrosinistra. Ancora una volta, il miracolo della ritrovata unità è firmato dal Cavaliere di Arcore. La «controriforma delle pensioni» – per usare le parole del furente segretario della Cisl, Savino Pezzotta – è la dinamite che ha fatto saltare all’aria il patto neocorporativo tra i sindacati moderati e Berlusconi, la Finanziaria del ministro Tremonti è la legna che ha alimentato il fuoco. Con la presentazione della nuova riforma del sistema previdenziale (la quarta in 10 anni, come abbiamo raccontato sul n. 38 di area del 19 settembre), il governo ha deciso di rompere i rapporti con Cisl e Uil, buttando a mare la strategia con cui la Casa delle libertà era riuscita a dividere le confederazioni sindacali con l’obiettivo di isolare la Cgil. La “controriforma” è una vera mazzata per i pensionati di domani, perché dal 2008 senza alcuna gradualità si potrà andare in pensione soltanto dopo aver maturato 40 anni di contributi. Ma le penalizzazioni cominciano da subito, attraverso l’introduzione di un sistema di cosiddetti incentivi per ritardare l’uscita dal lavoro, strumento di cui potranno usufruire solo i dipendenti dei settori privati ma non i lavoratori pubblici. Dunque la protesta delle confederazioni riguarda tanto il metodo – il rifiuto del governo di aprire un tavolo negoziale – quanto il merito della riforma. A ciò si aggiunga l’impatto di una Finanziaria che, in una fase preoccupante di recessione economica e di declino industriale, si regge su due pilastri per raggranellare fondi: 1) il taglio del welfare, della spesa pubblica, dei finanziamenti alla ricerca, agli enti locali, allo sviluppo, alla solidarietà con i Paesi poveri (e l’aumento della spesa per le armi e le attività belliche); 2) l’odiosa politica dei condoni, fiscali, ambientali e tombali con cui ancora una volta, ma con un surplus di immoralità rispetto al passato, si legalizza ogni forma di evasione fiscale e di abusivismo. Solo l’aspettativa dell’ennesimo condono ha scatenato la corsa all’abuso, alla costruzione in una notte di case e ville in riva al mare, nei parchi e nelle aree geografiche protette, fin nei parchi archeologici di Roma. Se a ciò si sommano le leggi fiscali volute da Berlusconi per tutelare il patrimonio personale suo (l’eliminazione della tassa di successione, solo per fare un esempio) e delle classi più abbienti, si ha un quadro del livello di redistribuzione della ricchezza operato in soli due anni dal governo. Berlusconi come Robin Hood alla rovescia. E si capisce perché sindacati moderati come Cisl e Uil il 24 ottobre torneranno a scioperare insieme alla Cgil. I padroni di Confindustria cantano vittoria ma non si accontentano della “controriforma” pensionistica, e pretendono che la mannaia cali già dal prossimo anno sulla testa dei soliti noti. Così la pensa, sia pure con una maggiore presa di distanza dal governo rispetto al passato, il governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E il centrosinistra, l’opposizione ulivista al governo? Meglio sarebbe non parlarne e stendere un pietoso velo di silenzio. Prima il segretario dei Ds Piero Fassino, poi l’intera Margherita rutelliana, a una settimana da uno sciopero che potrebbe sortire effetti molto negativi per Berlusconi, si sono detti disponibili a discute con la maggioranza la controriforma, ipotizzando una strategia emendatoria per migliorare quel testo su cui Cgil, Cisl e Uil non sono disposti ad aprire alcuna trattativa. «L’unica condizione per aprire un confronto sulle pensioni – dicono all’unisono Epifani, Pezzotta e Angeletti – è il ritiro della legge». Il segretario generale della Cgil, Gugliemo Epifani, interrogato da noi su questo punto è stato chiarissimo: «Se c’è nel centrosinistra chi pensa che è meglio lasciar fare la controriforma alla destra, così poi quando ci sarà il cambio di governo il lavoro sporco ma necessario sarà stato fatto dagli altri, sbaglia profondamente. Perché di quel lavoro sporco non c’è alcun bisogno». Il 24, Fassino o non Fassino, lo sciopero generale di quattro ore si farà e sarà unitario con tre grandi manifestazioni a Roma, Napoli e Bologna. Non sarà che il primo avvio dell’autunno caldo italiano: il 7 novembre, a riempire il centro della Città eterna saranno i metalmeccanici, chiamati alla lotta per il contratto dalla sola Fiom-Cgil, a testimonianza del fatto che una vera unità sindacale non è a portata di mano e che non sempre unità e radicalità possono andare d’accordo.

Pubblicato il

17.10.2003 01:00
Gianfranco Helbling
Loris Campetti