TORINO ̶ “L’imputato non è presente?”, chiede la presidente della corte Cristina Domaneschi rivolgendosi ai legali di Stephan Schmidheiny, che con un gesto del capo fanno segno di no. L’interprete, seduta in fondo alla sala e pronta a tradurre dall’italiano al tedesco e viceversa ogni parola del processo, viene dunque “congedata”. Si è aperto con questo passaggio formale (e scontato, visto che Schmidheiny ha sempre disertato le aule dei tribunali) la prima udienza d’appello del processo Eternit bis per 392 morti d’amianto causati dalla fabbrica di Casale Monferrato (Alessandria), che ha preso avvio mercoledì 13 novembre presso il Palagiustizia di Torino. Processo chiamato a esaminare la sentenza della Corte d’Assise di Novara (in cui Schmidheiny è stato condannato a 12 di anni di carcere per omicidio colposo plurimo aggravato), impugnata sia dalla difesa che insiste con la richiesta di assoluzione, sia dall’accusa che ribadisce la tesi dell’omicidio intenzionale. La prima udienza è stata dominata dagli interventi dei tre rappresentanti della pubblica accusa, che hanno ribattuto punto per punto alle asserzioni fatte dalla difesa nell’atto d’impugnazione della sentenza di primo grado, ma che hanno anche voluto far pervenire al grande assente Stephan Schmidheiny, un suggerimento: la strada della cosiddetta “giustizia riparativa”, un approccio che mette al centro le vittime, i loro bisogni e cerca una risposta costruttiva a un evento distruttivo, che è il reato. “Reato ̶ recita la normativa italiana in vigore dal 2022 ̶ che non dovrebbe più essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o un comportamento che incrina l’ordine costituito – e che richiede una pena da espiare – bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte e che richiede, da parte del reo, principalmente l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato”. A portare il concetto di giustizia riparativa, per la prima volta nella storia di questo processo, dentro un’aula giudiziaria è il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello Sara Panelli, che segue questa vicenda giudiziaria sin dai suoi inizi avendo partecipato alle indagini all’origine del primo maxiprocesso Eternit per disastro ambientale, in cui rappresentava l’accusa insieme all’ex procuratore aggiunto Raffaele Guariniello e a Gianfranco Colace, che la affianca, insieme a Mariagiovanna Compare, nel sostenere l’accusa anche in questo processo d’appello dell’Eternit bis. «Un’opportunità non come imprenditore ma come uomo» «È un’opportunità straordinaria per Stephan Schmidheiny, non come imprenditore, ma come uomo e come filantropo, come lui si definisce», ha affermato la magistrata, spiegando che la giustizia riparativa «non ha nulla a che vedere con la responsabilità penale e nemmeno richiede un’ammissione di responsabilità per accedervi». «Ciò che può riparare l’uomo Stephan Schmidheiny viene discusso e concordato privatamente tra le parti con l’aiuto di un mediatore imparziale, che ha l’obbligo di tacere sui contenuti degli incontri», ha ancora spiegato Sara Panelli sottolineando il valore di questa «strada complementare», che «consentirebbe sia a Schmidheiny sia alla comunità ferita di Casale di evolvere, di passare su un altro piano». Dunque «un’opportunità straordinaria», ha ripetuto Panelli. «Straordinaria» come l’intera storia al centro del processo. Una storia «di una drammaticità fuori dall’ordinario» e che la procuratrice ha dunque ripercorso sottolineandone alcuni punti di straordinarietà. A partire dalla straordinarietà del numero dei morti «che portano la firma dell’amianto» nell’area di Casale Monferrato (40mila abitanti), dove tra il 1990 e il 2019 il mesotelioma ha ucciso almeno 661 persone contro le 30 (una all’anno) attese dalle statistiche su questo cancro rarissimo. «Sono oltre 600 casi che non avrebbero dovuto verificarsi secondo le ordinarie leggi dell’epidemiologia. Se le straordinarie condizioni di esposizione all’amianto fossero state evitate, quelle persone, persone in carne e ossa, non sarebbero morte», ha ricordato Sara Panelli. Una famiglia nel gotha dei signori dell’amianto C’è poi la straordinarietà della posizione della famiglia Schmidheiny nel mercato mondiale dell’amianto, che è utile a «valutare le conoscenze scientifiche e le scelte dell’imputato». La famiglia Schmidheiny ̶ ha spiegato Sara Panelli ̶ «si situava nel gotha dei signori dell’amianto», che era composto da tre gruppi: Johns-Manville negli Stati Uniti, Turner&Newall in Gran Bretagna e in Europa continentale la famiglia belga Emsens e gli Schmidheiny. Tra loro «creavano alleanze per gestire l’approvvigionamento, decidere i prezzi e le strategie internazionali per controllare il mercato mondiale». Le stesse aziende commissionavano però anche «ricerche per comprendere la pericolosità del materiale, ma ne impedivano la divulgazione», ha aggiunto la magistrata. Un esempio? Nel 1959 lo scienziato di Johannesburg Chris Wagner presentò uno studio (poi pubblicato nel 1961) sugli effetti della presenza di una miniera di amianto (appena finita sotto il controllo degli Schmidheiny) in Sudafrica sia sui lavoratori addetti all’estrazione sia sulla popolazione che abitava vicino, in cui si accertavano 33 casi di mesotelioma: 7 di origine professionale, 15 da esposizione ambientale e gli altri da doppia esposizione. Questo studio aiuta in qualche modo anche a datare le conoscenze di Schmidheiny, perché quello studio all’imprenditore disse una cosa chiara: «Che non c’era modo sicuro di estrarre amianto e di lavorarlo. E i signori dell’amianto lo sapevano: avevano informazioni scientifiche di prima mano!», ha tuonato Sara Panelli. La scelta del silenzio Ma «scelsero di tacere», ha aggiunto la magistrata introducendo un ulteriore elemento di «straordinarietà» di questa tragica vicenda: quella «del silenzio sulla pericolosità dell’amianto». Nonostante questa sia accertata (dallo studio sudafricano ma anche da altri), «i lavoratori non vengono informati e nemmeno le persone che vivono intorno allo stabilimento», ha spiegato Sara Panelli, ricordando il celebre Convegno di Neuss (in Germania) del 1976, in cui Schmidheiny riunì 35 alti dirigenti del gruppo da lui controllato, che, informati degli effetti devastanti dell’amianto sulla salute, rimasero “scioccati”, si apprende dalla documentazione processuale. Ma il miliardario svizzero raccomandò loro di “non suscitare panico tra i lavoratori”, cioè di nascondere loro la verità. «Perché una diffusione delle conoscenze scientifiche avrebbe fermato la produzione», ha commentato la procuratrice. E di fronte al trapelare di qualche informazione si cerca di far passare il messaggio che l’amianto può essere lavorato in sicurezza. «Gli interventi sugli impianti dello stabilimento di Casale sono quelli che nella documentazione interna, vengono definiti “piccole migliorie” o “qualche concessione ai sindacati”, che però non hanno nessuna efficacia, come dimostra il numero spropositato di morti a Casale Monferrato», ha sottolineato Sara Panelli, ricordando la posizione di primo piano di Schmidheiny, che, pur gestendo un universo di oltre mille società, seguiva personalmente l’attività produttiva e tutte le vicende della fabbrica di Casale. «Intratteneva una corrispondenza riservata con il direttore dello stabilimento. Inoltre la formazione dei manager avveniva in Svizzera e in Svizzera si decideva come andavano fatte le misurazioni della polverosità», che poi si scoprì «non riguardavano le lavorazioni più pericolose». «Si usavano poi punti di campionamento inadeguati». «Schmidheiny era dunque datore di lavoro e gestore del rischio amianto», ha osservato Sara Panelli prima di passare a un’altra «sottolineatura». Il dolore che rende il ricordo indelebile Quella relativa alla «straordinaria dignità delle vittime di Casale». Panelli ricorda in particolare la «compostezza dei testimoni» del processo, cui la difesa di Schmidheiny rimprovera di non essere del tutto attendibili perché con il trascorrere del tempo la memoria non consentirebbe di conservare immagini intatte. «Non è vero», ha replicato Panelli, diffondendo un frammento video della deposizione nel primo maxiprocesso della compianta presidente dell’AFEVA (l’associazione dei familiari e delle vittime dell’amianto di Casale Monferrato) Romana Blasotti Pavesi, che a causa dell’Eternit ha perso cinque persone care. «Tutte le testimonianze sono state chiare, puntuali, composte, intrise di tristezza e sofferenza», ha detto la magistrata contraddicendo la tesi dei legali di Schmidheiny: «Quanto vissuto da queste persone rende il ricordo indelebile». |