Stephan Schmidheiny sapeva bene che di amianto si muore, ma, nel nome del profitto, ha deciso di andare avanti il più possibile, promuovendo la disinformazione dei lavoratori e della popolazione attorno allo stabilimento Eternit di Casale Monferrato (poi abbandonato in uno stato di degrado e rimasto una grave fonte di inquinamento ambientale per anni) e dopo la chiusura della fabbrica ha cercato di allontanare da sé ogni responsabilità attraverso una precisa strategia comunicativa. Sono questi, in estrema sintesi, i motivi esposti dai rappresentanti dell’accusa nel processo Eternit bis in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino a giustificazione di una richiesta di condanna del miliardario svizzero per omicidio intenzionale e alla pena dell’ergastolo. E non per “semplice” omicidio colposo, come stabilito dalla sentenza del giugno 2023 della Corte d’Assise di Novara, che gli ha inflitto 12 anni di reclusione per una parte dei 392 ex lavoratori e cittadini morti di mesotelioma per aver respirato le polveri dell’Eternit di Casale, da lui controllata tra la metà degli anni Settanta e il 1986. Trecentonovantadue morti, un elenco di donne e uomini uccisi dall’amianto aggiornato al 2016 e che sono oggetto del processo, che “raccontano” in modo solo parziale la tragedia. Basti pensare che «da allora si sono ammalate di mesotelioma altre 441 persone e, forse già domani, si aggiungeranno altri casi», come ha tristemente osservato il Pubblico ministero Gianfranco Colace durante l’ultima udienza. E come testimonia la realtà: proprio il giorno successivo in un paesino del Monferrato Casalese è morta una donna di 48 anni cui era stato diagnosticato il mesotelioma meno di un anno fa, l’ennesima vittima dell’attività industriale dell’Eternit e di quel dannato stabilimento di Casale Monferrato. Una situazione catastrofica dentro la fabbrica e fuori Uno stabilimento sul cui stato di polverosità e sporcizia, prima e durante le gestione Schmidheiny, si è soffermato a lungo Gianfranco Colace. Ricordando innanzitutto che già nel 1973, in occasione di una prima visita allo stabilimento di Casale, Othmar Wey, un alto dirigente di Eternit Svizzera, aveva potuto constatare “una situazione ‘catastrofale’” (traduzione approssimativa del termine tedesco “katastrophal”, ndr) per quanto riguarda l’attività con l’amianto e la protezione dei lavoratori”. «E le condizioni di insalubrità non mutano negli anni successivi, neppure quando subentra Stephan Schmidheiny», ha sottolineato Colace menzionando per esempio le 260 prescrizioni per problematiche di igiene e salubrità impartite dall’Ispettorato del lavoro tra il 1976 e il 1983. «Si tratta di contestazioni per oltre 260 reati in materia. Una situazione abnorme, una cosa inaudita: in Italia non ho mai sentito nulla di simile in oltre 25 anni che mi occupo di sicurezza negli ambienti di lavoro», ha tuonato il magistrato. Una situazione, ha precisato, «di cui l’imputato era consapevole». Così come era consapevole della dispersione di polvere d’amianto anche fuori dalla fabbrica, su tutto il territorio di Casale Monferrato e i suoi dintorni: c’erano i ventoloni che gettavano aria intrisa di polvere fuori dallo stabilimento; l’amianto entrava poi nelle case degli operai dove si dovevano lavare le loro tute da lavoro impolverate perché in fabbrica non c’era la lavanderia, c’era la frantumazione a cielo aperto del materiale di scarto (della fabbrica di Casale ma anche quello di altri stabilimenti Eternit in Italia); c’era il trasporto di manufatti e materie prime su camion che attraversavano la città; c’era lo scaricamento dell’acqua del ciclo produttivo direttamente nell’adiacente Po: 20 tonnellate alla settimana che col tempo sono andate a restringere l’alveo del fiume e a creare una penisola diventata poi una spiaggetta dove la gente di Casale, ignara del pericolo, si godeva le estati in riva all’acqua; e poi c’era la discarica a cielo aperto, che era anche un centro di vendita e distribuzione ai cittadini della zona del famigerato “polverino”, materiale di scarto della tornitura dei tubi che veniva impiegato come una sorta di cemento con cui si realizzavano marciapiedi, vialetti, cortili, aie, campi sportivi e ogni genere di pavimentazione, oppure (ancora peggio) veniva sparso a secco nei solai e nei sottotetti per isolare abitazioni e condomìni; e infine, ma non da ultimo, c’è stato nel 1986 l’abbandono dello stabilimento «in stato di degrado, con vetri rotti e fuoriuscita di amianto ancora accumulato all’interno. Situazione che è rimasta fino agli anni Duemila quando è stata attuata un’imponente bonifica a spese pubbliche, cioè con i soldi della collettività», ha ricordato Gianfranco Colace. «Consapevolezza piena» L’imputato «sapeva poi benissimo che di amianto si muore», sottolinea ancora la pubblica accusa insistendo sulla «consapevolezza piena» di Stephan Schmidheiny. Una consapevolezza testimoniata per esempio dalle parole da lui stesso pronunciate nel 1976 in occasione di un convegno a Neuss (in Germania), in cui Schmidheiny riunì 35 alti dirigenti del gruppo, che, informati degli effetti devastanti dell’amianto sulla salute, rimasero “scioccati”, si apprende dalla documentazione processuale. Ma il miliardario svizzero raccomandò loro di “non suscitare panico tra i lavoratori”. Cioè di non informarli. «La difesa ̶ ha commentato Colace ̶ sostiene che si scelse di usare cautela nell’affrontare il problema sanitario per non creare allarmismi. Dare informazioni sulla pericolosità dell’amianto era allarmismo?». Il fallimento deciso a Zurigo Secondo i magistrati dell’accusa è chiaro che Schmidheiny «decise di resistere a ogni costo. Perché era troppo redditizio e le aziende avevano bisogno di tempo per pianificare l’abbandono del pericoloso materiale», ha affermato Sara Panelli, sostituta Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino. Si ricorse dunque «alla propaganda sulla “lavorazione in sicurezza” dell’amianto, anche se già si sa che nessun uso controllato può mettere al riparo». E quando ci si rende conto che l’amianto «non è più conveniente dal punto di vista dei profitti, si chiude, si lascia fallire la fabbrica», ha spiegato Sara Panelli. Un fallimento datato 4 giugno 1986, ma che era già stato deciso da tempo: «Nel 1983 a Zurigo», complice un evento allarmante per il gotha mondiale dell’amianto (in cui la famiglia Schmidheiny aveva un ruolo di primissimo piano): la notizia che negli Stati Uniti il colosso Johns-Manville era stato sommerso da 16.500 cause legali con richiesta di risarcimento per malattie asbesto-correlate. «Schmidheiny temeva un rischio analogo», ha affermato Sara Panelli. L’occultamento delle responsabilità Una volta decisa la chiusura della fabbrica di Casale, Schmidheiny si è trovato confrontato con un nuovo rischio da evitare: quello di «uno scandalo a livello nazionale e internazionale, con conseguenze sia finanziarie sia di immagine», ha spiegato la procuratrice, passando ad illustrare un altro pilastro della strategia di Mister Eternit, già a partire dal 1984: quello di una comunicazione professionale volta a occultare la responsabilità dei massimi vertici aziendali, cioè dello stesso Stephan Schmidheiny, in vista delle possibili cause giudiziarie. Si trattava di “tenere la questione a livello locale, con toni i più bassi possibili, focalizzarsi sugli stabilimenti Eternit italiani, evitando ogni riferimento al gruppo svizzero e principalmente ai suoi azionisti. E di minimizzare sia il danno economico sia quello di immagine”, si apprende da documenti poi sequestrati dai magistrati di Torino. I vertici elvetici della multinazionale affidarono il compito di realizzarli alla società milanese di pubbliche relazioni Bellodi, che mise in piedi una sorta di intelligence per monitorare la stampa locale italiana (ma pure quella svizzera, in particolare i giornali di Unia che scrivevano della vicenda) così come per spiare le mosse dell’associazione delle vittime di Casale Monferrato e, più tardi, quelle dei magistrati torinesi. Venne elaborato anche una sorta di prontuario (il “manuale Bellodi”) con risposte preconfezionate per ogni ipotesi di domanda. A chi avesse per esempio chiesto se Schmidheiny fosse a conoscenza dei danni provocati dall’Eternit, «bisognava dire che lui non era né un direttore né un dirigente degli stabilimenti, di conseguenza non poteva essere responsabile», ha indicato Sara Panelli. Insomma, «bisognava “ripulire” le sue posizioni: non aveva ruolo in Italia, non aveva gestito niente. Al più aveva “alcuni interessi” nel gruppo Eternit». L’attività della Bellodi, dal costo di «diversi milioni di euro», proseguì fino al 2005, quando l’allora procuratore di Torino Raffaele Guariniello ordinò un blitz delle forze dell’ordine negli uffici della società milanese, dove vennero sequestrati numerosi documenti rivelatori del comportamento dell’imputato, nei confronti del quale i pubblici ministeri di questo processo d’Appello ribadiscono la richiesta di una condanna per omicidio intenzionale di tutte le 392 persone oggetto del processo e che venga condannato alla pena dell’ergastolo. |