Stephan Schmidheiny sapeva della pericolosità dell'amianto già verso la metà degli anni Sessanta. Mentre i suoi legali stanno tentando con ogni mezzo di sabotare il processo Eternit di Torino che lo vede imputato, i rappresentanti delle migliaia di vittime in Italia e in altri paesi europei proseguono la loro opera d'informazione dell'opinione pubblica sulla storia oscura del miliardario svizzero e del suo "impero della morte".

Lunedì mattina a Torino, in occasione della seconda udienza  in tribunale (come la prima del 10 dicembre, interamente dedicata alla burocrazia processuale), membri dell'associazione delle vittime svizzere dell'amianto (Caova) hanno distribuito un interessante documento in cui sono citate le dichiarazioni più significative e compromettenti riconducibili al miliardario svizzero. Alcune sono state estratte dalla sua recentissima biografia (in tedesco) giunta in libreria proprio in concomitanza con l'apertura del processo ("Stephan Schmidheiny. Sein langer Weg zu sich selbst", ovvero "il lungo cammino per ritrovare me stesso"), Stämpfli Verlag, dicembre 2009).
C'è in particolare un passaggio da cui si evince che già verso il 1965 Schmidheiny era venuto a conoscenza delle pubblicazioni scientifiche (del 1964) del pneumologo americano Irvin Selikoff che dimostravano la tossicità dell'amianto. Lui però, che all'epoca muoveva i primi passi nell'azienda di famiglia (di cui assunse la guida nel 1975), andò avanti per evitare che il gruppo Eternit cadesse in rovina, si legge in sostanza nel libro. Schmidheiny, commenta Caova, «ha preferito salvare le sue imprese d'amianto-cemento nei numerosi paesi dove Eternit era presente piuttosto che tutelare la salute dei lavoratori».
A questo proposito è inoltre interessante osservare come l'imputato Schmidheiny abbia mantenuto in vita le sue "fabbriche del cancro" (come vengono chiamate nelle città come Casale Monferrato più colpite dalle polveri di amianto) facendo ricorso sistematico alla menzogna: in un primo momento ha sostenuto l'innocuità dell'amianto, poi la possibilità di lavorarlo in sicurezza e infine ha fatto valere una presunta insostituibilità. «Stephan Schmidheiny sperava che la catastrofe di un divieto dell'amianto a livello mondiale non si verificasse, perché non esistevano materiali sostitutivi», scriveva il settimanale "amico" della destra economica svizzero-tedesca Die Weltwoche due anni fa. Un'affermazione palesemente falsa, fa notare Caova, poiché il mercato già all'epoca offriva dei prodotti performanti, inoffensivi e riciclabili. Il problema vero era che Eternit di questi materiali non aveva né il controllo né la possibilità di trarne profitto e quindi fece di tutto per difendere l'amianto fino alla fine.
Anzi, tra il 1975 e il 1990, quando Schmidheiny aveva pieni poteri sull'Eternit, incrementò l'uso dell'amianto e in seguito se ne infischiò dei danni provocati: nessun indennizzo per le vittime (se non a processo di Torino iniziato e solo per cercare di sfoltire l'elenco delle parti lese), nessun contributo alla bonifica dei luoghi contaminati e, soprattutto, nessuna collaborazione alla ricerca della verità.
Al processo di Torino Schmidheiny (al pari del suo coimputato, il barone belga Louis Marie Ghislain De Cartier De Marchienne) non si è per ora presentato, ma i suoi venticinque avvocati sono impegnati in un'offensiva legale tesa a impedire che si arrivi ad una sentenza. Per la prossima udienza, in agenda lunedì 8 febbraio, si preparano a riproporre la tesi avanzata senza successo in sede di udienza preliminare, secondo cui la presenza di così tante parti civili (che potrebbero raggiungere anche quota seimila) sarebbe contraria al principio costituzionale del "giusto processo". In altre parole, l'imputato spera di schivare il giudizio perché la sua Eternit ha provocato troppi malati e troppi morti.

Pubblicato il 

29.01.10

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