Schmidheiny padrone nell'ombra

Ha fatto e sta facendo ogni cosa per nasconderlo, ma Stephan Schmidheiny era a tutti gli effetti il padrone degli stabilimenti Eternit in Italia dove si è consumata la strage dell'amianto. L'imprenditore svizzero imputato al processo in corso a Torino, non era solo l'azionista di riferimento della società (tra il 1972 e il 1986, anno del fallimento), ma ne determinava anche le politiche ambientali e industriali e si occupava della scelta dei dirigenti, dei tecnici, del marketing e delle materie prime. Non è un caso che in seguito abbia tentato con ogni mezzo di salvarsi dall'inchiesta del procuratore Raffaele Guariniello, che per anni ha pure fatto spiare.

È la verità che sta emergendo con sempre maggiore chiarezza dal dibattimento in corso nella capitale piemontese. Particolarmente significativa è la deposizione resa nelle ultime udienze da Paolo Rivella, il perito che su incarico del pubblico ministero ha ricostruito nel dettaglio le vicende societarie dell'Eternit italiana a partire dall'analisi di migliaia di documenti sequestrati durante l'inchiesta. Lettere, verbali, rapporti mensili dall'Italia alla Svizzera e persino contatti ad alto livello tra il sindacato italiano e la casa madre svizzera sono alcuni indicatori del «ruolo operativo», «presente» e «incisivo» nella gestione della filiale italiana avuto da Stephan Schmidheiny.
L'esperto ha in particolare mostrato in aula una serie di documenti riferiti a incontri dei vertici aziendali in Svizzera a cui partecipavano anche i dirigenti delle controllate italiane. In particolare ha citato una riunione tenutasi nel 1976, alla quale Schmidheiny aveva convocato manager ed esponenti delle aziende per illustrare le conseguenze dell'amianto sulla salute. «Evidentemente le direttive di Schmidheiny non valevano solo per le fabbriche in Svizzera ma anche per le quattro in Italia e le altre nel mondo», ha detto Rivella sottolineando come dai verbali emerga la «piena consapevolezza» dei vertici di Eternit della pericolosità dell'amianto.
Negli incontri venivano d'altro canto pure esaminate le ricadute sull'immagine del marchio Eternit per il diffondersi di tale consapevolezza nella popolazione italiana. Un fatto che veniva descritto come l'effetto di una campagna da parte dei concorrenti per indebolire l'azienda. Per cercare di limitare il diffondersi dei timori, la casa madre elvetica aveva dunque elaborato un manuale per la gestione della comunicazione destinato ai dirigenti italiani. La strategia consisteva nello spiegare che, se usato correttamente, l'amianto non fa male.
Ma i vertici della multinazionale svizzera sapevano che, prima o poi, la questione dei morti da amianto sarebbe scoppiata in tutta la sua drammaticità e così cercarono per anni di parare il colpo e in particolare di impedire che Stephan Schmidheiny comparisse nell'inchiesta. Un particolare questo emerso dai documenti sequestrati dalla polizia giudiziaria di Guariniello presso gli uffici dell'agenzia milanese di pubbliche relazioni Bellodi, che era stata incaricata (oltre che di spiare l'associazione delle vittime, vedi area numero 7 del 7 maggio 2010) di monitorare e manovrare l'informazione sull'amianto. Per questo servizio Schmidheiny versò tra il 2000 e il 2005 oltre un milione di euro.
In una nota datata giugno 2000 spedita dalla sede Eternit di Niederurnen (canton Glarona) alla stessa agenzia erano contenute le istruzioni: «Sts -l'acronimo utilizzato per indicare Stephan Schmidheiny, ndr- non deve comparire mai, per nessuna ragione». Dunque, già quattro anni prima dell'apertura dell'inchiesta da parte del procuratore Raffaele Guariniello, Eternit aveva già definito gli obiettivi per la gestione del capitolo italiano dell'amianto. «Schmidheiny -ha commentato sarcastico il magistrato- aveva capito prima quello che io, purtroppo, ho inteso con anni di ritardo».
E proprio Guariniello era nel mirino dei servizi di "intelligence" della multinazionale svizzera, che organizzavano ai suoi danni un'incessante attività di «pedinamento giudiziario» ed elaboravano rapporti mensili sui suoi spostamenti e le sue attività quotidiane. Le «informazioni riservatissime», è stato spiegato in aula, erano state raccolte in un dossier in cui tra l'altro si dava notizia della partecipazione di Guariniello a «convegni riconducibili ad associazioni ambientaliste» e di un suo articolo su Micromega, definita «una pubblicazione intellettuale molto sofisticata, dal pubblico molto ristretto». Una precisazione che la dice lunga sull'ottimismo che all'epoca regnava ai vertici dell'Eternit, soprattutto per le poche attenzioni dedicate al caso dalla stampa italiana e per il fatto che la multinazionale elvetica non era il soggetto principale delle battaglie contro l'amianto. Nel 2000 Schmidheiny e il suo entourage credevano ancora di poter «mantenere tutto a livello locale» e ordinavano di gestire la comunicazione in modo da «evitare ogni possibile fuga di notizie a livello nazionale e internazionale». In particolare invitavano, si apprende da una nota sequestrata negli uffici della Bellodi, a «mantenere toni bassi, a focalizzarsi solo sulle società italiane evitando riferimenti al gruppo svizzero e ai suoi azionisti e a lavorare alla minimizzazione dei danni, sia economici sia di immagine».
Questa strategia però fallì: la protesta delle vittime di Casale Monferrato (con i suoi duemila morti, la località di gran lunga più colpita dalle fibre di amianto dell'Eternit) invece di diminuire cresceva e col passare del tempo aveva eco anche nei media nazionali. Una situazione che spinse i dirigenti svizzeri, come testimonia un documento del 2003, a stilare quattro "livelli di attenzione delle indagini", il cui quarto era il peggiore: "RG -il procuratore Raffaele Guariniello, ndr- manda per posta un rinvio a giudizio per STS». Questo scenario veniva tuttavia ancora considerato «improbabile» ("unlikely").
Poi però le cose andarono diversamente e oggi Stephan Schmidheiny e colui che lo ha preceduto alla testa di Eternit Italia (il barone belga Jean Louis de Cartier De Marchienne) sono sotto processo a Torino, accusati di disastro doloso permanente e inosservanza delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro.
I due imputati, che sinora non hanno presenziato a una sola udienza, rischiano condanne fino a dodici anni di carcere e centinaia di milioni di euro in risarcimenti alle vittime. La sentenza è attesa nel corso del 2011.

Pubblicato il

08.10.2010 01:30
Claudio Carrer