Schmidheiny la deve pagare

«Una tragedia mai vista. E mai letta». «Una tragedia che ha colpito popolazioni di lavoratori, popolazioni di cittadini» e che «continua purtroppo a seminare morte e che continuerà a seminare morte chissà sino a quando». Gli imputati, dimostrando «una significativa capacità di delinquere», «non si sono limitati ad  accettare il rischio che il disastro si verificasse o continuasse a verificarsi, ma hanno accettato e continuano ancora  oggi ad accettare questo immane disastro».

Sono parole durissime quelle pronunciate lunedì dal procuratore di Torino Raffaele Guariniello per motivare, a conclusione di una lunga e drammatica requisitoria, la richiesta di una pena di vent'anni di reclusione per i due imputati del processo Eternit, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis de Cartier, a giudizio per le circa tremila vittime causate dai cinque stabilimenti italiani della multinazionale dell'amianto che sono state individuate dalle indagini della Procura di Torino. Indagini che hanno consentito di dar vita allo storico dibattimento, il più grande mai celebrato in Europa, il primo che vede alla sbarra i massimi dirigenti della multinazionale che ha seminato e continua a seminare morte in Italia, «ma anche in altre parti del mondo». E il tutto, «aspetto che trovo drammatico» –ha tuonato Guariniello- «senza che mai nessun tribunale abbia chiamato i veri responsabili a rispondere».
Un rimprovero, quello del combattivo magistrato torinese che ha dedicato un'intera carriera alla tutela penale della salute sui luoghi di lavoro, che tra i suoi destinatari non può che avere anche la Svizzera, con la sua legislazione e la sua giurisprudenza in materia di prescrizione che tengono al riparo dai guai imprenditori senza scrupoli. Toccherà forse ancora allo stesso Guariniello indagare su quanto accadeva per esempio dentro le fabbriche Eternit di Niederurnen (Glarona) e Payerne (Vaud) e levare quella cappa di silenzio posta dalle autorità politiche e giudiziarie elvetiche. L'occasione sarà data dall'inchiesta Eternit bis, già avviata, ma che entrerà nel vivo l'anno prossimo: come dichiarato da Guariniello al nostro giornale (vedi area numero 2 dell'11 febbraio) essa riguarda infatti anche un centinaio di casi di italiani morti per malattie da amianto che lavoravano negli stabilimenti svizzeri.
Ma per intanto gli occhi restano puntati sul processo di Torino, ormai alle battute finali (la sentenza è attesa per l'autunno). Un processo che in quasi ogni udienza ha fatto emergere dettagli inquietanti sulla condotta criminale dei due imputati, in particolare di Stephan Schmidheiny, colui che ha gestito Eternit Italia dal 1972 (dopo averla rilevata dal gruppo belga facente capo a de Cartier, il coimputato 89en-
ne) fino al 1986, anno della chiusura su auto-istanza di fallimento. Guariniello ha definito «significativa» la «capacità a delinquere dimostrata» dai due, «mossi dalla precisa volontà di nascondere o negare, sia con i lavoratori sia con le popolazioni, la cancerogenicità dell'amianto, mossi dalla precisa volontà di proseguire l'attività a tutti i costi, in condizioni tali da mettere a repentaglio la salute dei lavoratori e della popolazione». «Disposto poi, in particolare Stephan Schmidheiny -ha insistito- a mascherare dietro un declamato spirito filantropico, sia attività di monitoraggio degli ambienti di lavoro direi addirittura genialmente preordinato a nascondere l'effettivo pericolo per i lavoratori con l'apporto di asseriti esperti, sia attività lobbistiche sia attività di spionaggio preordinate a tenerlo al riparo da temute azioni giudiziarie».
Moltissimi sono gli «elementi di prova che inchiodano lo svizzero alle sue responsabilità» raccolti dalla magistratura torinese, che lo accusa di omissione dolosa di misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro e di disastro ambientale doloso permanente.
Proprio nell'udienza di lunedì, in un aula gremita di familiari delle vittime, ammalati e semplici cittadini, la procuratrice Sara Panelli in un brillante e partecipato intervento, con cui ha fornito un assaggio della gigantesca documentazione probatoria nelle mani dell'accusa: con la voce a tratti rotta dall'emozione (evento raro nelle aule di giustizia) ha riferito testimonianze, atti congressuali, documenti strategici, corrispondenza e telefonate con i dirigenti italiani di Eternit, rapporti tecnici, decisioni prese prima e, soprattutto, dopo il fallimento.
Una fase quest'ultima, che è consistita soprattutto in una serie di strategie di comunicazione studiate a tavolino per affrontare ogni circostanza: un tempo finalizzate all'occultamento del problema, poi, una volta scoppiato lo scandalo in Italia, a mantenere a livello locale la diffusione delle notizie e a tenere il più possibile fuori dalla vicenda Stephan Schmidheiny, cercando di addossare tutte le responsabilità ai dirigenti degli stabilimenti. Il compito era affidato alla Bellodi Sa, società di pubbliche relazioni, nei cui uffici milanesi nel dicembre 2005 è stata sequestrata «una mole di documenti capaci di inquietare qualsiasi lettore», ha sottolineato Sara Panelli. A testimonianza di un'attività «intensa, frenetica», «costata milioni e milioni di euro». Per vent'anni sono state orchestrate vere e proprie azioni di disinformazione, di depistaggio e di spionaggio (tra le vittime pure lo stesso Guariniello).
Ma ora anche per Stephan Schmidheiny, a 64 anni, è giunto il momento di fare i conti con il proprio passato, che la sua attuale presunta attività di filantropo non può certo cancellare. È «responsabile» di un'«immane, sconvolgente tragedia» e dunque va condannato a vent'anni di carcere, è convinto Raffaele Guariniello.
Ora la parola passa agli avvocati delle circa tremila vittime costituitesi parte civile e, dopo la pausa estiva, toccherà ai legali della difesa, venticinque dei quali sono al soldo di Schmidheiny. Per novembre o dicembre è prevista la sentenza.


Torino – Da pochi minuti nella maxi aula del Palazzo di giustizia di Torino si è chiusa la cinquantunesima udienza del processo Eternit: il procuratore Raffaele Guariniello, ha appena chiesto vent'anni di carcere per gli ex padroni della multinazionale dell'amianto. Con passo spedito, un'anziana donna si avvicina al banco dei pubblici ministeri, stringe loro la mano e li ringrazia. Prima Guariniello e poi i suoi due vice Gianfranco Colace e Sara Panelli, che ricambiano con modi affettuosi.

«Momento storico e alto»

Protagonista di questo gesto dall'alto valore simbolico è Romana Blasotti Pavesi, la carismatica e combattiva presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime dell'amianto di Casale Monferrato. In questa "città martire" di circa 36 mila abitanti in provincia di Alessandria, la presenza (fino al 1986) di uno stabilimento dell'Eternit ha già causato la morte di più di duemila persone tra ex lavoratori e cittadini. La "Signora Romana", come viene chiamata, è il simbolo vivente di questa «immane tragedia». Lei, oggi 82enne, a causa della fibra killer dispersa in fabbrica e nell'ambiente circostante dalla Eternit, ha perduto nell'ordine: il marito, la sorella, il nipote, un cugino e la figlia, come ha avuto modo di raccontare, in veste di testimone, anche alla corte durante questo processo che attendeva da trent'anni.
«Trent'anni - ricorda - di lotta dura e sofferta, molto sofferta», in cui non ha mai smesso di gridare la sua «grande voglia di giustizia», che ora «si sta profilando nella concretezza e congruità delle pene richieste dai pubblici ministeri».
«Oggi -dichiara ad area- dopo tanto dolore per una tragedia di cui non si vede la fine, ho voluto ringraziare i tre pubblici ministeri per far sapere loro quanto apprezziamo il lavoro che hanno svolto in tutti questi anni di inchiesta e di processo. Non solo con la loro intelligenza, la loro preparazione e la loro competenza, ma anche con un grande cuore. Questo mi rende contenta».
Romana Blasotti non si stanca di ripetere che non serba alcun rancore nei confronti dei responsabili della strage. Ma vorrebbe, «un giorno» poterli «guardare in faccia» e che costoro «provassero a stare con un malato di mesotelioma dall'inizio alla fine della malattia». «Forse capirebbero», ci disse il 10 dicembre 2009, in occasione della prima udienza del processo.
Ora, dopo le conclusioni dei pubblici ministeri, si prepara ad ascoltare le ragioni degli avvocati difensori, consapevole che «sarà dura». Ma affronterà la situazione, con lo sguardo rivolto come sempre al futuro: «La condanna è sicuramente necessaria, ma la mia grande speranza è che questa grande tragedia venga compresa da quegli industriali che, nel nome del profitto, continuano ancora oggi a causare la morte di lavoratori e cittadini e a fare così tanto male alle famiglie».
La conclusione di questo processo, scrive dal canto suo l'Associazione in una nota, sarà «un momento storico e alto per riflettere sulla qualità dello sviluppo economico-industriale e per la giustizia del nostro Paese e non solo».   

Pubblicato il

08.07.2011 01:00
Claudio Carrer