Femminismo

La testimonianza di una venditrice in conflitto con il suo diretto superiore per una questione di genere. «Non piace la mia sicurezza e, per paradosso, la mia professionalità invece di essere valorizzata è punita».

“È socievole e capace di risolvere i conflitti. Crea fiducia e risolve i conflitti all’interno del team. Sa delegare, incentivare e motivare i colleghi. Ha un atteggiamento positivo riguardo ai cambiamenti. È pronta a imparare cose nuove. Pensa e agisce in maniera imprenditoriale. Si integra nel team ed è una persona rispettosa. Comunica in maniera chiara ed è capace di ascoltare. È cordiale e gentile. È orientata al cliente e disponibile. Si attiene a direttive e regolamenti. Mostra spirito d’iniziativa e trova soluzioni. È puntuale: rispetta i termini. Lavora in maniera affidabile e precisa. Per far fronte al volume di lavoro previsto, si impegna. Organizza il lavoro in modo efficiente e autonomamente. Dispone di conoscenze adeguati al livello”.  


Sembra la lista della spesa e il rimando si presta visto che sono le valutazioni ottenute da una venditrice dalla direzione di una grande catena di supermercati, leader in Svizzera, per la quale lavora da oltre dieci anni.

 

Anna, nome di fantasia, è una donna sicura, cordiale, che sa il fatto suo e possiede la capacità di leggere bene l’ambiente circostante. Accetta di buon grado di raccontare la vicenda professionale che sta vivendo, perché – a suo sentire – è legata a una questione di genere, a «una volontà di manifestare il potere gerarchico maschilista, di sottomettermi in quanto donna».


Anna ci mostra alcune lettere di ammonimento, che ha ricevuto negli ultimi mesi dal nuovo gerente della sua filiale. La dipendente, che fino all’altro ieri pareva un modello da santificare, creerebbe malumore all’interno del gruppo, non mostrando spirito d’iniziativa. Nella lettera si rincara ammonendola per delle banalità, che essendo così poco consistenti, quasi evanescenti, assumono un carattere  pretestuoso.


Anna sa attribuire il significato di quelle buste affrancate che ogni tanto il postino le recapita a casa: «Stanno costruendo la base delle “prove” per cui io non sarei adatta, sono preavvisi per legittimare un eventuale licenziamento. Se ho paura? No, conosco il valore del mio lavoro, che amo e svolgo con passione, e so che non avrei difficoltà a trovare velocemente un altro posto. Ma questa lotta, che il gerente ha intrapreso con me, con la speranza di atterrarmi, dominarmi, delegittimarmi di fronte ai colleghi è mobbing: una forma di violenza morale che fa male e rende difficile infilarsi la divisa dell'azienda per servire i clienti».


La donna, con due bambini piccoli e un compagno che lavora come stagionale, stando per lunghi periodi lontano da casa, di fatto gestisce la propria quotidianità con i problemi di una famiglia monoparentale.

Le esigenze personali, legate anche alla necessità di far seguire una terapia al figlio, iniziano a diventare incompatibili con l’organizzazione del lavoro. «Sono impiegata nella percentuale dell’80%: una mia scelta per poter concentrare le questioni legate all’accudimento dei figli (medici, incontri con i docenti) e della casa (spesa, pulizia, pagamento fatture) in un giorno fisso a settimana. A un certo punto, il giorno fisso, che è un mio diritto, non va più bene e si pretende di dirmi, di volta in volta, quando potere stare a casa. Così mi sconvolgi l’esistenza, invadendo i miei spazi privati dove pretendi di avermi a disposizione a tuo piacimento».

Anna, ma perché mai questi problemi con la direzione sarebbero riconducibili al fatto di essere una donna?
Ne sono convinta. Sono una donna che non si piega e se la gerente precedente apprezzava le mie qualità personali di leadership e professionali, in quanto in un supermercato riesco a coprire tutte le esigenze (dalla macelleria, alla cassa, fino alla gestione completa di un reparto), chi le è succeduto, un uomo, ha vissuto male la mia autonomia professionale, la mia capacità di gestire un reparto in autonomia. Più facile mandare lettere di ammonimento o riprendermi di fronte alle colleghe, gridandomi “non sai fare nulla”. Non  una critica costruttiva, ma un attacco per denigrarti davanti agli altri. La verità è che sono una dipendente che dà fastidio, perché dico la mia con competenza.

La competenza non dovrebbe essere valorizzata?
La gerente precedente, consapevole di quanto sapessi fare, valorizzava il mio contributo, sfruttandolo nella connotazione positiva: faceva rendere il mio lavoro, assegnandomi mansioni dove potevo dare il meglio. Una soddisfazione per me e maggiori risultati per l’azienda. Quando c’è stato il cambio dell’organico superiore con la gerenza passata a un uomo, la situazione per me è completamente cambiata. È più difficile farsi valere con un uomo. Ritengo di avere una coscienza femminista, una personalità da leader e ho contribuito alla riuscita di alcune azioni di estensione del lavoro per rivendicare i diritti dei dipendenti. Ho molta esperienza, so fare il mio lavoro, ma non ho un ruolo riconosciuto sulla carta da un titolo o da una particolare qualifica. Si è instaurato, così, un conflitto implicito fra potere legittimo e potere legittimato. Chi detiene il potere, il mio gerente, usa la sua posizione per tentare di schiacciarmi.

Tenuta in scacco da chi «in alto sulla scala gerarchica, al vertice è incapace di gestire un gruppo».
              

Pubblicato il 

25.05.23
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