Scena e retroscena delle grandi acquisizioni

Capita spesso di leggere di mastodontiche operazioni di acquisti-vendite di gruppi, multinazionali, industrie. Di solito due cifre accompagnano queste notizie: il valore in dollari della transazione, sempre più miliardario e, tra parentesi, quasi fosse informazione importante per dare un ordine di grandezza, ma secondaria per l’affare, il numero delle persone occupate dal gruppo.


Se ne possono dedurre subito tre considerazioni. Primeggia su tutto una scelta finanziaria (enorme disponibilità di capitali); è palese l’intenzione di fagocitare un concorrente, conquistando altri mercati, aumentando il potere anche nei confronti degli Stati (la si venderà come una ricerca di “economia di scala”, mettersi cioè assieme per risparmiare); si perfeziona una paradossale “invisibilità” dell’operatore (chi è, dove sta, che cosa farà?) che permette di comportarsi come meglio conviene nei confronti di qualsiasi obbligo, sia esso mercantile, occupazionale, fiscale, ambientale, politico.


C’è però dell’altro. La decisione di acquisto-vendita-fusione è faccenda di pochi. Passa sopra la testa dei veri protagonisti dell’economia reale (i lavoratori), si fa beffe della politica aggirando possibili ostacoli dovuti a leggi particolari (leggi anticartellarie a difesa della concorrenza, leggi fiscali, leggi ambientali, leggi a salvaguardia dei cosiddetti settori strategici). Capita comunque spesso che molti acquisti-vendita-fusioni diventino oggetto di scambi politici-economici tra Stati e multinazionali, con conseguenze pesanti su popolazioni ignare. Il risultato sarà di tipo imperialistico, di estromissione della democrazia e delle sue istituzioni di controllo e decisione, di esclusione di ogni sovranità o assentimento popolari.


Pensiamo all’ultimo caso, emblematico più di ogni altro, che è oltretutto anche svizzero. I cinesi dopo aver invaso il mondo con i loro prodotti, stanno ora conquistando industrie in ogni parte del mondo. Nei primi quattro mesi di quest’anno hanno già comperato 303 industrie o società d’ogni tipo per 111 miliardi di dollari. L’operazione più massiccia è avvenuta in Svizzera: l’acquisto dell’industria agrochimica basilese Syngenta (28.000 dipendenti nel mondo, 3.300 in Svizzera) da parte del mastodontico complesso ChemChina, che appartiene allo stato cinese, per 43,8 miliardi di franchi. Anche se la sede di Syngenta rimane a Basilea, lo svuotamento proprietario è di fatto svuotamento svizzero. Infatti, il destino dell’industria non è già più nel suo quartier generale elvetico, ma a Washington. Il semaforo verde al contratto dipende ancora dall’esito del mercanteggiare tra americani e cinesi. Syngenta sarebbe costretta a ritirarsi dall’immenso mercato agricolo americano, molto redditizio, se i cinesi non apriranno il loro mercato ai produttori americani di sementi e se non toglieranno la proibizione degli Ogm (organismi geneticamente modificati). Quindi, in pratica: Syngenta ma anche Monsanto. Gli americani, libero-scambisti per gli affari propri, ma protezionisti quando ci sono di mezzo le loro industrie, fanno pure leva sull’immancabile pretesto del terrorismo (lo scrive il Wall Street Journal): la più importante fabbrica di Syngenta negli Usa si trova a dieci miglia dall’Offutt Air Force Base presso Omaha nel Nebraska, sede dello United States Strategic Command, centro di comando creato dal presidente George Bush dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001; ci si è accorti che è pericoloso aver vicino la Syngenta, che potrebbe essere costretta a far le valigie. A meno che svizzeri e cinesi…

Pubblicato il

24.05.2016 22:32
Silvano Toppi