Alle volte è bene guardare oltre la cucina politico-economica domestica per cogliere “se” che interrogano o “ma” che intrigano. Se e ma che questa volta potrebbero fare storia. Facciamo due esempi colti dall’attualità. Ci sono tre settori pubblici della cucina politico-economica nazionale (per riflesso anche cantonale) che non sono stati toccati dall’epidemia neoliberista della privatizzazione: le autostrade, la Ssr, l’esercito. Potremmo aggiungere, parzialmente, il settore idroelettrico, quello della salute, dell’acqua potabile (emblematico il recente voto di Zurigo) e, per quanto già capita in altri paesi spesso imitati (v. Usa) persino le prigioni. Sappiamo che genere di problemi, di disservizi e anche di maggiori costi ci sono stati per altri settori semiprivatizzati o aziendalizzati. Per i tre settori che risultano pressoché inviolati ci sono solide ragioni radicate nella geografia complessa, nelle varie etnie e culture che fanno l’essenza della nazione, nell’ingegneria politica istituzionale-confederale, nella natura stessa del Paese plurale ma unico, a rendere le scelte prevalentemente economiche e neoliberiste imposte altrove irrealizzabili, pena il disfacimento di tutto (lo si è temuto con la recente votazione sulla Radiotelevisione svizzera).Tanto che sono molti a pretendere un ribaltamento per quanto è avvenuto, sull’onda europea (ed è paradossale), con la Posta e la Ferrovia. Ci sono però ancora coloro, anche tra politici ticinesi, che con il pretesto di estendere o allargare a più corsie la rete autostradale, suggeriscono il prelievo di pedaggi (v. futura nuova canna del Gottardo) o, sotto sotto la partecipazione dell’investimento privato o la semiprivatizzazione creando società anonime. Ed ecco allora che, guardando oltre la propria cucina, salta fuori l’esempio che fa fuoco in Francia: cresce la rabbia popolare perché le società delle autostrade hanno voluto dal primo di febbraio un nuovo aumento dei pedaggi. Le società autostradali realizzano una cifra d’affari annua superiore ai 10 miliardi di euro con margine medio di profitto netto del 20 per cento, intascato dai privati, con un aumento dei pedaggi sulle tratte più trafficate e obbligate del 20-35 per cento in sette anni. Serve come “se” (se avessimo anche noi le autostrade privatizzate?), serve come esempio-monito (ecco le conseguenze e quale è il vero risultato che si ottiene con le privatizzazioni). Ci si dice spesso, per rassicurarci e ridarci fiducia, che molti progressi sono stati fatti nella sorveglianza del settore finanziario, nel comportamento degli operatori e nell’esigere trasparenza da banche e sistema bancario. Una innocenza ritrovata, insomma. È uscito negli scorsi giorni il rapporto del Consiglio di stabilità finanziaria (Fsb), organo internazionale voluto dopo la crisi del 2008, che ci dice come lo “shadow banking”, in senso stretto (esclusi fondi e assicurazioni), valga 51.600 miliardi di dollari e rappresenti quasi il 15 per cento degli attivi finanziari mondiali. Che cosa vuol dire? “Shadow banking” è la finanza ombra, la finanza parallela, che corre fuori o a fianco delle banche e che cresce ogni anno al ritmo di quasi il 9 per cento. La conclusione generale è che ben poco è cambiato, si riesce sempre a nascondere o fuggire per la tangente. La conclusione domestica, osservando la proliferazione di certi uffici o anche l’emergere di alcuni casi penali, lascia intuire che la finanza ombra deve prosperare anche dalle nostre parti. Il paradosso è che l’ombra dipende dalla luce che non c’è.
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