Salvato per il rotto della cuffia

L’intervento statale evita il fallimento di Credit Suisse, simbolo del capitalismo elvetico. La storia e il peso degli scandali

Domenica 19 marzo, a Berna, si è respirato l’aria della storia. Una storia triste, un déjà-vu dopo i casi Swissair (2001) e Ubs (2008). Questa volta tocca a Credit Suisse. La decadente, scandalosa, marcia, spocchiosa, criminale Credit Suisse. Dopo una settimana in emergenza, anticipando il probabile fallimento che sarebbe giunto con l’apertura dei mercati, il presidente della Confederazione, Alain Berset, ha annunciato l’acquisto della banca da parte di Ubs.

Una rivincita della storia: la banca dalle radici provinciali e contadine – Ubs – si pappa quello che sin dalla sua creazione nel 1856 è stato l’istituto delle élite economiche e finanziarie zurighesi. Costo dell’operazione, per Ubs, 3 miliardi di franchi. Un prezzo da saldi ai grandi magazzini. Costo dell’operazione, per la Confederazione, 209 miliardi di franchi: è l’ammontare delle linee di credito garantite dalla Banca Nazionale Svizzera (100 miliardi) e dalla stessa Confederazione (100 miliardi più 9 miliardi a garanzia delle attività tossiche di Credit Suisse).

 

Ancora una volta, quindi, tocca allo Stato salvare all’ultimo minuto un’impresa privata portata sull’orlo del baratro dall’operato incompetente e megalomane dei suoi dirigenti. Manager e amministratori che negli ultimi anni hanno guadagnato bonus stratosferici: gli ex Ceo Brady Dougan e Tidjane Thiam, hanno portato a casa rispettivamente 160 e 90 milioni; 50 quelli finiti nelle tasche dell’ex presidente del Cda Urs Rohner. Bankster che oggi non devono rispondere di nulla, tanto quando le cose sfuggono di mano arriva Mamma Elvezia.


E che le cose stessero sfuggendo di mano, già lo si sapeva da tempo. Della crisi di Credit Suisse si parla da mesi, con un’accelerata nelle ultime settimane data dall’instabilità e dal panico creatosi con il fallimento della Silicon Valley Bank e altre dinamiche borsistiche. In aggiunta, vi è stato il rifiuto del suo principale azionista, la saudita Saudi National Bank, a fornirle ulteriore liquidità dopo l’uscita di scena dell’ex azionista maggioritario, il fondo americano Harris Associates. Il titolo è così crollato in un giorno – il 15 marzo – del 30%. Era il segnale che il mercato non ci credeva più. La Bns ha così tentato di salvare la baracca aprendo una linea di credito da 50 miliardi, poi raddoppiata. L’idea era quella di ridare fiducia ai mercati. Ma la fiducia non c’è stata e i capitali hanno continuato ad uscire, a suon di miliardi al giorno. Una situazione drammatica: la banca too big to fail (troppo grande per fallire) stava per... fallire.


Ma al di là della cronaca recente, come è possibile che una delle banche più importanti a livello mondiale, un istituto con una solida tradizione che ha superato quasi indenne la crisi del 2008, sia finita in questo pateracchio?

 

Semplice: Credit Suisse si è giocata la fiducia con anni di scandali. Quando è stata creata da Alfred Escher, politico liberale, dirigente d’azienda, perforatore del Gottardo, Credit Suisse è servita a finanziare lo sviluppo delle ferrovie e l’ammodernamento della Svizzera. Allora c’era un legame tra la finanza e il mondo produttivo. Ora il dogma privilegia il denaro che si fa con il denaro. Si parla di finanziarizzazione dell’economia. È l’essenza del capitalismo contemporaneo nel quale ha sguazzato Credit Suisse, con la banca che è diventata un istituto globale e dal marcato profilo speculativo. Si è privilegiato le attività di investment banking a scapito dei servizi e della gestione patrimoniale. Ciò ha significato investimenti ad alto rischio che hanno minato la solidità di un bilancio che, nel 2022, ha chiuso con un buco di 7,3 miliardi.

 

Una cultura del rischio che ha portato a investimenti come quelli nella società finanziaria londinese Greensill Capital e nella newyorkese Archegos Capital Management. Quest’ultimo era un fondo d’investimento per super ricchi che ha fatto il botto a Wall Street dopo avere effettuato investimenti per decine di miliardi su prodotti derivati. Poi il mercato è sceso, il fondatore del fondo è stato arrestato e il castello di carte è crollato con Credit Suisse, tra i principali finanziatori, che ci ha rimesso 5,5 miliardi di franchi. La cultura della banca ha privilegiato il profitto a discapito della sicurezza: questo è stato il risultato.


Oltre al casinò, Credit Suisse è andata a giocare anche alla bisca clandestina, quella gestita dalla mala. Nel febbraio 2022 abbiamo seguito il processo al Tribunale penale federale dove la banca è stata condannata per una vicenda di riciclaggio con protagonista il boss della mafia bulgara Evelin Banev. Proprio in concomitanza con il processo, in 39 paesi è stata pubblicata l’inchiesta Suisse Secrets. Documenti alla mano ecco presentata al mondo la fitta schiera di clienti criminali dell’istituto: dittatori, oligarchi e gangster di ogni risma. E che dire, invece, della vicenda dei pescherecci in Mozambico? Navi finanziate per un miliardo da Credit Suisse a due società statali che hanno poi distribuito il denaro in allegre mazzette. Risultato: inchieste in vari paesi, ammonimento della Finma, e multe complessive per 475 milioni di dollari. Potrebbe anche fare ridere, se non si stesse parlando di uno dei paesi più poveri del pianeta, il Mozambico per l’appunto.

 

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La quotazione del titolo è la parabola di questa discesa agli inferi: quindici anni fa l’azione valeva oltre 80 franchi, oggi vale 80 centesimi. Vale di più insomma la cuffia divenuta icona vintage: distribuita gratuitamente alla fine degli anni Settanta oggi la si trova per più di 80 franchi sui vari portali di vendita online. È un po’ l’allegoria di questa triste storia. Dopo oltre 160 anni, la banca che incarna l’essenza stessa della finanza svizzera sparirà. Un po’ come, su scala minore, era successo in Ticino con la Bsi, dissolta dalla Finma dopo le imbarazzanti avventure in Malaisia. Credit Suisse aveva promesso di cambiare, aveva presentato un piano di ristrutturazione lacrime e sangue nell’autunno scorso, ma non ha fatto in tempo nemmeno a lanciarlo. A livello di proprietà di svizzero ha ormai ben poco: i primi due proprietari sono Saudi National Bank e Qatar Holding. Eppure nessun’altra azienda è così intimamente intrecciata alla Svizzera e alle sue élite politico-finanziarie. Credit Suisse è stata salvata in punto di morte, grazie all’intervento della Confederazione e di Ubs.

 

La speranza è che la discesa agli inferi della banca possa essere da monito della fragilità del sistema bancario svizzero e internazionale e di un capitalismo sempre più finanziario. Tanto più che ora la nuova Ubs sarà un istituto – un mostro – ancora più grande. E quindi pericoloso.

Pubblicato il

23.03.2023 09:20
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