Sale la tensione con la crisi sociale

La crisi economica? Non fa paura perché già si vedono i primi segnali di ripresa. Di conseguenza, il peggio per l'occupazione deve ancora arrivare. Non è un ossimoro, è il teorema della cultura economica dominante e chi riesce a vedere differenze tra questa e la cultura neocon liberista che sarebbe stata messa in soffitta dopo l'esplosione della bolla speculativa, alzi la mano.

Le ricette per uscire dalla crisi sono dettate dagli stessi soggetti e dalle stesse filosofie che l'hanno provocata. Così oggi, per decidere se la ripresa è iniziata non si guarda al tasso di disoccupazione crescente, in Italia come in Europa, negli Usa e in Giappone, bensì agli indici di Wall Street.
Ai salari da fame, tra i più bassi d'Europa, e all'esplosione del ricorso alla cassa integrazione, mai così alta da quando è stato introdotto questo ammortizzatore sociale per ridurre le conseguenze delle crisi, si aggiunge il crollo dell'occupazione in Italia: i precari nell'industria, nei servizi e nel pubblico impiego vengono rispediti a casa senza neppure essere contabilizzati, i dipendenti delle piccole imprese che costituiscono la struttura industriale italiana, privi di tutele sociali e giuridiche (senza cassa integrazione e senza Statuto dei lavoratori), vengono falcidiati. I distretti produttivi su cui si fondava il miracolo del nordest stanno saltando all'aria, vuoi per la caduta della domanda, vuoi per l'impossibilità di accedere al credito decretato dai colossi bancari. Nelle grandi imprese, infine, si moltiplicano i casi di procedure di licenziamento di massa. La crisi è un'opportunità per il capitalismo per ridislocarsi in giro per il mondo (è la globalizzazione, bellezza) e ristrutturarsi in patria, presentando il conto alla collettività (gli aiuti statali) e ai lavoratori. Risultato: un milione di posti di lavoro a tempo indeterminato cancellati tra l'inizio della crisi e i primi mesi del 2010, a cui si aggiungono le centinaia di migliaia di invisibili ex-precari oggi disoccupati. I tagli ai finanziamenti nel pubblico impiego, nella sanità, nella scuola, negli enti locali sta allungando le fila della disoccupazione giovanile, nel mezzogiorno, in fasce di ex ceto medio proletarizzato.
Dentro questo impasto velenoso cresce la crisi sociale. Interi stabilimenti industriali vengono chiusi o sono in via di chiusura nei settori portanti dell'economia, dalla meccanica al tessile. La sola Fiat, solo per citare la prima impresa italiana, sta cancellando fabbriche nell'auto (Termini Imprese) nonostante l'iniezione di danaro pubblico al mercato con la rottamazione, così come nel settore movimento terra (Imola). Ma è nelle piccole aziende, dove la strage degli innocenti è in iniziata prima ed è più feroce, che è partita la protesta operaia poi estesasi a tutti i settori produttivi, alle scuole, all'università. Il drappello operaio salito sul carroponte dell'Innse ha fatto scuola, da Melfi all'università di Roma. I casi di proteste eclatanti si sono moltiplicati sui tetti dei provveditorati agli studi invasi dagli insegnanti precari non confermati o in cima al Colosseo presidiato dai vigilanti a rischio disoccupazione in seguito ai processi di privatizzazione. Non siamo in Francia, non siamo (ancora?) al sequestro dei manager, ai suicidi in fabbrica come capita alla Renault, alle minacce di sabotare e far saltare con la dinamite gli stabilimenti. In Italia, nella rete di piccole imprese lombarde si sale sul tetto per cercare un padrone ad attività tutt'altro che decotte, o per costringere il governo a fare la sua parte con l'apertura di quei tavoli negoziali che i padroni negano.
Il successo sindacale, politico e mediatico del "leoni" dell'Innse di agosto ha dato speranza a tanti lavoratori in tutta la penisola, in Sicilia e in Sardegna. Ma non sempre i miracoli si ripetono. La vittoria all'Insse è stata resa possibile, oltre che dalla determinazione dei suoi operai, dal ruolo svolto dalla Fiom che ha riconosciuto questa lotta, l'ha guidata, ha gestito le trattative riferendo ogni passaggio ai lavoratori che hanno sempre potuto decidere se e come continuare la lotta e quando firmare l'accordo. Inoltre non va sottovalutato il periodo, agosto: un mese avaro di notizie con i media disponibili a dare spazio ai leoni sul carroponte. Era la prima volta in Italia di una forma di lotta così radicale e, per molti aspetti, estranea alla tradizione sindacale. Poi, passata l'estate e preso atto dei nuovi comportamenti operai, il silenzio è tornato a scendere sulle lotte che si moltiplicano ma vengono oscurate da giornali e televisioni. E non tutti i sindacati sono disponibili come la Fiom all'ascolto e alla rappresentanza del mondo del lavoro. L'unità sindacale è un ricordo di una stagione finita, accordi e contratti separati si moltiplicano, la Cgil è accerchiata e, dentro una Cgil che ha iniziato il suo percorso congressuale, si confrontano due posizioni diverse sui nodi dell'unità, della rappresentanza, della democrazia, dell'autonomia dal governo, dai partiti e dai padroni. Le forme di lotta hanno molto a che fare con la presenza e il comportamento sindacali, l'unità (dei lavoratori, non delle sigle confederali che non c'è più) ha bisogno di riconoscimento, rappresentanza, capacità contrattuale. Senza queste condizioni, la determinazione operaia potrebbe anche trasformarsi in disperazione. Come in Francia. Per l'unità e contro la disperazione, la Fiom ha dato il via all'autunno che potrebbe diventare caldo come quarant'anni fa: a ottobre ci sarà lo sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici. Chissà se l'opposizione (?) politica se ne accorgerà.

Pubblicato il

25.09.2009 03:30
Loris Campetti