La sentenza del Tribunale federale che ha convalidato il salario minimo neocastellano è uno spartiacque. Gli alibi giuridici per una sua adozione in Ticino sono stati spazzati via. L’unica incertezza riguarda l’importo. Venti franchi all’ora come deciso a Neuchâtel, ventuno franchi come proposto da Unia e Verdi in base al medesimo calcolo usato nel cantone romando, o inferiore ai venti franchi come vorrebbero gli ambienti padronali? In attesa che il governo cantonale si pronunci, area ha voluto capire quanti lavoratori e lavoratrici sarebbero toccati dall’introduzione di un salario minimo cantonale, sia nel caso dei 20 franchi sia nel caso dei 21 franchi. E le sorprese non mancano. Per una sintesi grafica, cliccate sulla foto e la potrete scaricare. Per un riassunto più dettagliato, potete continuare a leggere le righe che seguono. Oltre 14.000 lavoratori. È l’impatto che avrebbe l’introduzione di un salario minimo di 20 franchi in Ticino. Se nel canton Neuchâtel la sua adozione comporta dei miglioramenti del reddito per circa 3.000 lavoratori, a sud delle Alpi a beneficiarne sarebbero quasi cinque volte tanti. Ciò significa che quasi un salariato su dieci nel cantone percepisce uno stipendio inferiore ai 3.460 franchi lordi, la soglia di reddito sotto la quale si è poveri in base al diritto alle prestazioni complementari Avs. Un dato che la dice lunga sull’economia del cantone. Il numero è solo una stima, seppur statisticamente solida, ricavata dalla Rilevazione strutturale dei salari in Svizzera del 2014. Il numero reale di salariati coinvolti potrebbe invece essere ben superiore ai quattordicimila. Basti pensare che dei 16 contratti normali di lavoro emessi dal Cantone per contrastare il dumping salariale, non ce n’è uno che superi i 20 franchi nelle categorie minime. Contratti normali di lavoro che riguardano complessivamente 32.000 posti di lavoro. Toccati anche diversi contratti collettivi nazionali, che presentano salari minimi sotto i 20 franchi. Uno su tutti, il Ccl degli interinali che in Ticino prevede tre fasce salariali su quattro inferiori ai 20 franchi (formati, 1° anno dopo tirocinio e non qualificati). Per questi ultimi, i non qualificati, la paga minima è di 16,46 franchi all’ora. Lo scorso anno, in Ticino, i lavoratori temporanei ammontavano a più di 13.000. Leggermente inferiore di una cinquantina di franchi, nella categoria senza apprendistato, anche il Contratto nazionale collettivo alberghiero e ristorazione. Parrucchieri, pulizie, orologeria, agricoltura, industrie del tessile e abbigliamento, spedizione e logistica, cartonaggi sono altri contratti collettivi nazionali, cantonali o aziendali con salari minimi inferiori (in alcun casi di gran lunga) alla soglia dei 20 franchi orari o ai 3.500 mensili. Senza dimenticare il progetto di contratto collettivo nella vendita patrocinato dal consigliere di Stato Vitta che prevede un minimo salariale di 3.200 franchi. Facile dunque ipotizzare che le migliaia di lavoratori che beneficerebbero di un salario minimo di 20 franchi orari superino abbondantemente i 14.000 rilevati dalla statistica federale. Se poi si alza di un solo franco il salario minimo, la prudenziale stima statistica indica ben 20.000 lavoratori toccati. Interessante osservare la popolazione colpita, sia nel caso di venti sia nel caso di ventun franchi. Innanzitutto, una conferma. Le donne sono la categoria meno retribuita nel cantone. Sarebbero dunque loro le maggiori beneficiarie dall’arrivo di un salario minimo cantonale. Altrettanto interessante la provenienza dei lavoratori toccati. Se non stupisce che siano i frontalieri la maggioranza dei lavoratori malpagati, la quota dei residenti risulta piuttosto elevata. Sono oltre cinquemila i residenti retribuiti sotto la soglia di povertà per vivere in Ticino. Cinquemila cittadini che per poter sopravvivere molto probabilmente sono costretti a ricorrere ad aiuti statali, poiché le loro aziende non li retribuiscono sufficientemente. Questo dato porta a un’ulteriore conferma: la spietata messa in concorrenza di lavoratori fondata sulla speculazione dei livelli salariali da parte padronale, non è limitata ai soli frontalieri, ma produce effetti nefasti anche per i residenti. Anche per coloro che amano distinguere le persone in base al passaporto, il dato della nazionalità dovrebbe essere preoccupante. Dei residenti lavoratori-poveri, più della metà sono svizzeri. Se poi utilizziamo il criterio di 21 franchi l’ora come salario minimo, ossia l’importo ticinese corretto applicando il calcolo neocastellano (si veda articolo a fondo pagina 7), si osserva che quattro lavoratori su dieci dei malpagati vivono in Ticino. Ben ottomila cittadini non percepiscono un redditto sufficiente per vivere nel cantone. Anche in questo caso appare evidente il peso sopportato dalle finanze pubbliche per sopperire alle mancanze di alcune imprese private. Alcune imprese, va sottolineato, poiché il 90% dei datori di lavoro retribuisce a livelli dignitosi i propri dipendenti. In realtà, occorre essere più precisi, distinguendo tra datore di lavoro pubblico e privato. Nel settore pubblico lavorano circa 35.000 persone, cioè il 22% del totale. Di questi, solo 268 persone ricevono meno di 20 franchi l’ora, e poco più di cinquecento persone meno di 21 franchi. La quota dei sottopagati nel pubblico è dunque minima: 1% e rispettivamente 2%.È dunque di gran lunga il privato che crea lavoratori poveri, cittadini di cui poi la collettività si fa carico affinché possano vivere decentemente. Anche il dato del ramo lavorativo dei potenziali beneficiari di un salario minimo offre degli spunti interessanti. Il terziario, cioè il settore dove esistono meno tutele per i dipendenti, sprovvisto com’è di contratti collettivi di lavoro, con i rami del commercio e le attività amministrative conta un terzo dei sottopagati. Praticamente assente invece il settore dell’edilizia e artigianato, dove grazie alle lotte degli operai anche nel recente passato, i Ccl dei rami offrono dei livelli salariali tutto sommato dignitosi. La parte del leone dei sottopagati la fanno invece le attività manifatturiere. Ben si comprende dunque la scomposta reazione alla notizia della sentenza Tf del direttore dell’Associazione delle industrie ticinesi, Stefano Modenini. Quasi un terzo dai lavoratori pagati sotto la soglia dignitosa lavora nelle industrie ticinesi. Anche qui però occorre fare un distinguo. Tre grandi gruppi impiegano tra i 3.000 e i 4.000 dipendenti in Ticino. Nei loro stabilimenti, i salari minimi sono al di sotto della soglia dei 20 franchi. Sono la Consitex di proprietà della famiglia Zegna, (patrimonio stimato 2,25 miliardi di franchi), Swatch della famiglia Hayek (4,25 miliardi di franchi) e Bally della famiglia tedesca Reimann (30 miliardi di euro). Benché non sia automatico che le migliaia dei loro dipendenti percepiscano tutti il minimo contrattuale, si può altrettanto dedurre che una fetta importante dei 5.000 dipendenti sottopagati delle attività manifatturiere si trovino proprio nei capannoni di questi tre grandi gruppi. A questi si aggiungono i dipendenti sottopagati di piccole e medie industrie, ma nel complesso dalla statistica esce che sarebbero decisamente maggioritarie le industrie ticinesi con salari decenti. In conclusione, l’impatto di un salario minimo avrebbe delle significative ripercussioni sull’economia ticinese, ma non decisive. Potrebbe rappresentare l’opportunità di una svolta radicale di politica economica cantonale, liberandosi finalmente del fardello degli impresari che speculano sui bassi salari. Di certo, il salario minimo avrebbe conseguenze positive per migliaia di salariati e salariate, oltre che fungere da argine alla sostituzione di manodopera residente imposto da chi specula solo sui salari infimi.
|