I dati si commentano da soli. In Svizzera i lavoratori agricoli, circa 45 mila, non sono protetti dalla legge sul lavoro. E tre quarti dei contadini guadagnano meno di 50 mila franchi l’anno. La differenza di reddito tra l’agricoltura e il resto dell’economia potrebbe provocare un esodo dei lavoratori verso altre professioni. L’agricoltura è in pericolo, un intervento a sostegno del settore è urgente. Le iniziative non mancano e anche il parlamento è stato posto di fronte al problema. In Svizzera romanda la sezione del Sei, con il sindacalista Philippe Sauvin, è sulla breccia da diversi anni ormai. All’inizio del mese le rivendicazioni del sindacato hanno preso la direzione della capitale. «Il Sei sostiene una politica agricola che garantisca una remunerazione equa di tutti gli agricoltori. La chiave per comprendere le nostre rivendicazioni si chiama “armonizzazione dei contratti di lavoro”», spiega Philippe Sauvin, «un obiettivo che perseguiamo tramite l’idea di un contratto collettivo istituendo progressivamente, entro il 2006, un reddito di tremila franchi netti al mese, a fronte di un massimo di quarantacinque ore settimanali».
Philippe Sauvin ma cosa c’entra il Sindacato edilizia e industria con l’agricoltura?
I sindacati non sono degli uffici assicurativi che proteggono o offrono servizi soltanto a chi paga i premi. L’azione sindacale deve toccare tutti i settori produttivi e soprattutto ha il compito di tutelare il lavoro, quello svolto dagli operai come dai contadini. Al centro delle nostre preoccupazioni c’è la dignità dei lavoratori, e la lotta che il Sei conduce a fianco degli agricoltori punta innanzitutto al recupero della dignità, calpestata, di chi lavora la terra. Il sindacato ci ha messo un po’ prima di avviare un’azione anche in questo settore. Soltanto un anno e mezzo fa è stata presa una decisione a livello nazionale. Al congresso del Sei, a Lucerna, i delegati hanno dato mandato a tutte le sezioni di agire a tutela dei contadini, ciascuna nella misura delle sue possibilità.
Una situazione medievale
Al Sei preme dunque innalzare i livelli salariali che oggi si situano praticamente a due metri sottoterra, e con essi la dignità degli agricoltori. Ma anche raggiungendo la quota di tremila franchi al mese, con questa cifra non si riscatta certo una situazione che sembra appartenere al medioevo.
L’aumento del trattamento salariale è un primo passo fondamentale. Non si tratta soltanto di mettere nella tasca degli agricoltori duecento o trecento franchi in più al mese. La lotta persegue il miglioramento, progressivo, delle condizioni di lavoro. Il sindacato opera su questo versante, altri agiscono su altri fronti. I lavoratori agricoli non rientrano ad esempio nella Legge federale sul lavoro. Proprio così. Inutile cercare le ragioni di questo increscioso stato di fatto. Quello che conta è sapere che i braccianti possono lavorare di notte, senza alcun compenso, e non c’è uno straccio di legge che lo impedisce. Tocca allora ai politici colmare questa lacuna assurda.
Oltre all’aumento dei salari quali sono i nodi da risolvere?
Anche i padroni-produttori attraversano grosse difficoltà. Il mercato è in crisi, le aziende agricole vedono crollare i guadagni, e in generale il reddito è in calo costante in tutti i settori. La caduta del prezzo della carne, in seguito alla nuova «vague» della mucca pazza, lo scorso anno, e le forti piogge non hanno fatto che peggiorare una situazione già difficile, difficilissima direi. I problemi esistono da diversi anni ormai, le trasformazioni imposte all’agricoltura, anche per effetto della mondializzazione, hanno reso fragile, molto fragile, un settore che è pertanto primordiale per la Svizzera.
I grandi produttori però non ci stanno ad aumentare i salari.
Noi lanciamo un messaggio chiaro: aumentate i salari per ridare dignità al lavoro agricolo. E per difendere il settore. Le aziende non andranno lontano se mantengono da un lato i redditi al minimo e dall’altro pretendono che venga rispettata la professione. Voglio sottolineare che il sindacato si occupa unicamente delle condizioni di lavoro. Non entra nel merito della tutela del settore, un campo che viene arato dalle decisioni politiche o anche inprenditoriali. Ma un sindacato non può astenersi dall’osservare che la difesa dell’agricoltura passa in primo luogo dal rispetto dei lavoratori. Questa è anche la posizione di Uniterre, il sindacato di Fernand Cuche, che è anche consigliere nazionale.
Aumentare i salari per dare dignità al lavoro agricolo. Qual è la bacchetta magica del sindacato?
Il Sei sostiene una politica agricola che garantisca una remunerazione equa di tutti gli agricoltori. La chiave per comprendere le nostre rivendicazioni si chiama «armonizzazione dei contratti di lavoro», un obiettivo che perseguiamo tramite l’idea di un contratto collettivo istituendo progressivamente, entro il 2006, un reddito di tremila franchi netti al mese, a fronte di un massimo di quarantacinque ore settimanali.
Un contratto per tutti i coltivatori
Intende un contratto che mette sullo stesso livello i coltivatori di montagna e di pianura?
No, appunto. Negoziando un contratto collettivo si potranno finalmente prendere in considerazione le differenze esistenti tra le condizioni di lavoro in montagna o in pianura, o anche tra i diversi tipi di produzione. Facendo naturalmente gli opportuni adeguamenti nel rispetto della diversità. La discussione attorno ad un contratto nazionale permetterebbe di avviare un dibattito sui problemi legati a questo o quel tipo di coltura. E di rispondere alle attese dei produttori come a quelle dei lavoratori.
Il promotore dell’iniziativa parlamentare richiedente un salario minimo di 3000 franchi lordi, si chiama John Dupraz ed è un politico di destra, eletto nei ranghi del partito radicale. Il Sei richiede 3 mila franchi netti, cioè 3’400 lordi, entro il 2006. La lotta per innalzare il reddito dei contadini viene combattuta da due fronti che normalmente si contrappongono ma che raggiungono su questo punto un’unione di vedute. Qual è il significato di questa insolita alleanza?
Vista da un certo angolo sembrerebbe un’alleanza per così dire «contro natura». In realtà dimostra che il problema è a tal punto visibile e lancinante che forze civili generalmente opposte, i politici di destra e gli imprenditori, e i sindacalisti a difesa dei lavoratori, hanno preso coscienza che bisogna intervenire insieme per rimettere in sesto un settore in declino. È un bene che la questione sia entrata nelle aule parlamentari. Sarebbe ancor meglio se raggiungesse anche la società civile. Dai cittadini potrebbe venire un aiuto decisivo, perché i cittadini sono anche dei consumatori e le loro scelte potrebbero incidere fortemente sulle sorti dell’agricoltura.
Per essere curati, i mali dell’agricoltura elvetica dovrebbero quindi essere affrontati da una équipe di medici: sindacalisti, politici, imprenditori e anche i cittadini. Come può agire la società civile?
Il gesto del cittadino è determinante quando acquista un prodotto. Se sceglie i pomodori provenienti da colture in cui gli operai sono sfruttati, deve prendere coscienza che comprare quei pomodori significa intrattenere un sistema ingiusto. Oggi i marchi che difendono il commercio equo, per esempio Max Havelaar, che, sia detto per inciso, ha ottenuto ottimi risultati finanziari, hanno contribuito ad educare il consumatore. Occorre adesso far capire che se si vuole mantenere in vita l’agricoltura locale si dovrebbe cominciare appunto ad acquistare prodotti locali.
Umiliazioni e lavoro nero
Ma anche in Svizzera gli agricoltori spesso vengono sfruttati, lavorano in condizioni che rasentano l’umiliazione, quando non lavorano «in nero»…
Giustamente, se vogliamo garantire al consumatore che ad esempio le mele sono state raccolte da un bracciante che percepisce un reddito dignitoso e beneficia come tutti i lavoratori del riposo settimanale, di un orario di lavoro normale, delle assicurazioni sociali ecc., dobbiamo fare in modo che questi diritti vengano applicati e rispettati. Parallelamente bisognerà garantire la qualità del prodotto e la sua tracciabilità, ovvero la carta d’identità che ci dice da dove viene, come è stato coltivato, ecc.
Qual è l’analisi della situazione. Siamo lontani o vicini al traguardo di un settore pienamente regolamentato in cui i diritti dei lavoratori vengano pienamente tutelati?
Siamo lontani, molto lontani. Come ho detto in precedenza che i lavoratori agricoli non rientrano nella Legge federale sul lavoro. Oggi l’agricoltura è gestita da leggi o regolamenti cantonali e le condizioni di lavoro differiscono grandemente da uno all’altro. È per questo motivo tra l’altro che John Dupraz si è mosso in parlamento. A Ginevra i salari sono già stati fissati a tremila franchi e nel Canton Vaud si situano a 2 mila 762 franchi. Il costo del lavoro più elevato in questi due cantoni, circa 40 per cento. significa che le aziende ginevrine e vodesi si vedono costrette ad aumentare i prezzi alla produzione. La merce sarà più cara e la grande distribuzione, Migros e Coop, potrebbe a questo punto optare per i prodotti friburghesi a discapito di quelli ginevrini e vodesi.
Ammettiamo che si raggiungano tutti gli obiettivi, l’aumento del reddito, un contratto nazionale di lavoro ecc., rimarrebbe ancora un problema spinoso, quello della mondializzazione. L’apertura dei mercati e l’abolizione dei sussidi all’agricoltura sono i dogmi dominanti. Quale soluzione?
La soluzione ci sarebbe e si chiama «sovranità alimentare». Io credo che i negoziati sull’agricoltura dovrebbero uscire dal Wto (World trade organization, o Organizzazione mondiale del commercio, ndr), ma non credo che lo si farà. Ma anche in questa situazione non significherebbe porsi in contraddizione con gli accordi internazionali se venisse sollecitata appunto la sovranità alimentare, cioè un potenziamento delle capacità interne con il corollario necessario della vendita locale dei prodotti e gli annessi e connessi della protezione sociale dei lavoratori, il ruolo dei consumatori ecc. Un’idea che comincia a fare il suo corso e che mi sembra un modo di venire a capo del problema. Insomma un’altra terra è possibile... con piccole e grandi idee, come ad esempio la produzione locale per un consumo locale». |