Salari e spesa pubblica sotto tiro

“Come ne usciremo e quando si finirà?”, ci si sente spesso interrogare. Si pensa all’economia, con tutto quel che comporta, dal lavoro, al potere d’acquisto, alle finanze, al futuro. Forse già con la domanda e l’esperienza vissuta ci si risponde che l’unica previdenza necessaria è  ormai quella di capire che non si può prevedere niente (lo diceva il filosofo Rousseau) o che le previsioni economiche sono destinate a mai avverarsi perché il futuro è imprevedibile e inconoscibile (lo diceva l’economista Keynes).


I previsionisti che lavorano per le banche centrali o altre istituzioni ufficiali, per i governi o il settore privato, tendono a rivedere le prospettive economiche al rialzo. Perché da un lato riflettono, quasi meccanicamente, alcuni recuperi avvenuti e pensano che quindi si estenderanno anche altrove. Perché d’altro lato non possono fare a meno di mostrare l’orizzonte di una politica economica che appaia stimolante o sicura di sé. Così la previsione del futuro (forecasting, come dice l’immancabile inglese) inizia o si fonda sulla previsione del presente (nowcasting). È come capita per il servizio meteorologico: vedi come si muovono le nuvole e i venti ed ecco la previsione. Con il coronavirus quest’esercizio ha però due grossi limiti perché si finisce in un emisfero sconosciuto. Non si può fare nessuna previsione senza formulare, preventivamente, una ipotesi sull’evoluzione della situazione sanitaria; e chi è in grado di farla, attualmente? (L’aveva fatta Trump, già in primavera, e si sa com’è stato punito). Non si può fare nessuna previsione attendibile a livello nazionale senza delineare, per ovvie forti interdipendenze economiche (pensiamo solo alle esportazioni), le evoluzioni che ci saranno  negli altri paesi: senza la domanda, l’offerta sta in magazzino.


Ci si danno quindi delle previsioni su scala globale. Ci si dice che il livello di attività nel 2021 sarà press’a poco analogo a quello del 2019 e cioè 5 punti più basso di ciò che ci si poteva attendere se non ci fosse stata la pandemia.  Si andrà a ritroso. Lo scarto si traduce in perdita di imprese e di lavoro.


Ci sono tuttavia altri scenari economici che, con attendibilità molto più verosimile delle previsioni degli economisti, finiranno per verificarsi.
Dapprima, considerato ciò che si prospetta, le strategie aziendali avranno una giustificazione in più per ridurre il costo del lavoro o aumentare la pressione al ribasso sui salari e gli stipendi. Sia per recuperare i mancati guadagni dovuti alla pandemia, sia per far fronte al costo o ai  rimborsi dei prestiti, sia per procedere alle “fatali” ristrutturazioni, suggerite anche dalla pandemia, (alcune clamorose già annunciate) con licenziamenti a catena. È però il classico cane che si mangia la coda. Perché si toglie reddito e capacità d’acquisto, si indebolisce o decapita la domanda interna, si frena e mortifica l’economia, si innalza l’indebitamento delle famiglie, già elevato, a sistema. Si produce per chi?


In secondo luogo, spaventati dall’esplosione dell’indebitamento dell’ente pubblico (Confederazione, cantone), si torna già a insistere, da parte dei soliti, sull’equilibrio tra la spesa pubblica e le risorse fiscali dello Stato. Che si raggiunge solo, con il recupero immediato del vecchio dogma, riducendo la spesa pubblica (che non è quella degli aerei), invece di aumentarla per sostenere l’economia e rimediare agli squilibri e alle tensioni sociali  che  l’economia e il mercato, maggiormente con la pandemia, creano e hanno creato nella società.

Pubblicato il

08.10.2020 10:59
Silvano Toppi
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