Per la prima volta nella storia della Confederazione (e probabilmente non solo), il nostro Parlamento sta varando una legge federale per ridurre i già modesti salari di migliaia di lavoratrici e lavoratori, attraverso una soppressione di fatto dei minimi legali che, per volontà popolare, sono stati introdotti (o che lo saranno) in alcuni cantoni. È un attacco frontale alla dignità delle persone, alla giustizia sociale e alla democrazia che si sta concretizzando per volontà di una maggioranza di destra-centro che lo scorso 17 giugno si è imposta agilmente in Consiglio nazionale e che in autunno potrebbe confermarsi al Consiglio degli Stati. Se così fosse ai sindacati e alla sinistra non resterebbe che l’arma del referendum per fermare questo irresponsabile attacco alla politica sociale a esclusivo beneficio di quel padronato che ha la pretesa di far lavorare la gente per salari da fame. È questo il nocciolo della questione, perché a essere presi di mira non sono salari principeschi, ma i salari fissati al minimo del minimo della soglia esistenziale. Ma i tagli che subirebbe una parrucchiera di Ginevra o un cameriere di Neuchâtel sarebbero enormi e dolorosissimi, perché la legge in discussione mira a consentire (in presenza di un contratto collettivo) retribuzioni ancora inferiori. Allo stato attuale delle cose, la modifica di legge avrebbe un impatto soprattutto nei due Cantoni menzionati, perché le leggi sul salario minimo di Giura, Basilea Città e Ticino (anche se qui la situazione potrebbe cambiare in seguito a un’iniziativa popolare pendente), già prevedono possibilità di deroga con modalità simili. Ma in prospettiva questa “lex Ettlin” (dal nome del suo promotore) avrebbe conseguenze per tutta la Svizzera e metterebbe la museruola ai Cantoni e ai loro cittadini, impedendo loro di fatto di ricorrere a un importante strumento di politica sociale come il salario minimo. E andando oltretutto a intaccare l’autonomia cantonale e i diritti democratici e di partecipazione dei cittadini. E le conseguenze sarebbero di più ampia portata ancora, perché le persone che non riescono più a vivere con il loro salario dovrebbero forzatamente ricorrere alle prestazioni sociali e dunque alla fine toccherebbe alla collettività pagare: la popolazione dovrebbe così di fatto sovvenzionare quelle imprese che si sottraggono al loro dovere di versare retribuzioni eque ai dipendenti. Quanto si sta consumando sotto la cupola di Palazzo è un ennesimo tentativo del fronte padronale e dei suoi fedeli rappresentanti di affermare proprio questa visione, sabotando la volontà del popolo dei Cantoni e delle città in cui è stata decisa, attraverso processi democratici, l’introduzione di un salario minimo legale. Dopo la votazione che aveva sancito l’introduzione del principio nel canton Neuchâtel, Gastrosuisse e altre associazioni padronali sono arrivate fino al Tribunale federale nel tentativo di farlo saltare. E in Ticino è successa la stessa cosa. Ma in entrambi i casi l’alta Corte ha stabilito che il salario minimo è una misura di politica sociale di competenza dei Cantoni, che ha lo scopo di combattere il fenomeno dei working poor e che in nessun caso viola la libertà economica. Ma nonostante questi pronunciamenti i padroni non si rassegnano. Zurigo e Winterthur dovranno così probabilmente arrivare fino al Tribunale federale per difendere le decisioni dei loro cittadini in favore di un salario minimo, perché oggetto di ricorsi da parte delle organizzazioni economiche. E ora stanno cercando di percorrere la scorciatoia di un cambio delle regole del gioco a livello federale. |