Sabra e Chatila: una delegazione italiana ha incontrato in Libano i sopravvissuti alla strage

Beirut, settembre 1982: lei ha sedici anni e un bambino di tre mesi, lui ha trent'anni e quando ne aveva qualcuno di meno ha perso la vista durante una manifestazione; vivono a Chatila, il campo profughi palestinese alla periferia di Beirut. Dopo mesi di occupazione israeliana le case del campo sono a pezzi, la gente si arrangia a sopravviverci, manca l’elettricità. Tra il 15 e il 16 cominciano a tirare su Chatila: gli abitanti scendono ai piani bassi per cercare riparo dalle bombe. Sono le nove di sera e il campo è completamente al buio. In casa arriva la notizia che dei parenti sono feriti: lei esce per andare a vedere che cosa è successo. Un razzo illumina la strada, le sparano: è colpita ad una gamba, non può muoversi, rimane a terra per un giorno intero ed è così che scampa al massacro. Intanto a casa arrivano voci allarmanti. Lui e i genitori, già anziani, decidono di cercare di fuggire prima che sia troppo tardi, portando in salvo il bambino. Nella notte illuminata dai razzi e dagli spari, scappano, inciampano, cadono, il bambino picchia la testa. Si nascondono per diversi giorni in quello che resta di un edificio di Sabra devastato dai bombardamenti. Il bambino piange in continuazione, non hanno da mangiare né da bere, ma uscire potrebbe equivalere alla morte. Settembre 2001: in una stanza della loro povera abitazione di Chatila, lei e lui sono davanti ad alcuni membri della delegazione italiana che per il secondo anno consecutivo è a Beirut nell’anniversario della strage per chiedere una degna sepoltura per i morti e giustizia per le vittime. Marito e moglie riescono persino a scusarsi per averci raccontato una storia triste. Le vittime chiedono giustizia Lei è seduta, la protesi che ha al posto della gamba si è rotta e non riesce a camminare: dimostra molto più dei suoi trentacinque anni; lui, in piedi, ha gli occhi nascosti da un paio di occhiali scuri; il figlio diciannovenne non c’è: rimasto permanentemente handicappato, sta imparando un lavoro in un centro di riabilitazione. Sarebbe un quadro insostenibilmente straziante, se ad un certo punto nella stanza non si affacciassero due dei quattro figli nati dopo la strage: hanno dieci e quattordici anni, visi bellissimi, e sembrano l’incarnazione dell’allegria e del sorriso. La più grande, un velo bianco che le fascia il capo, è il sostegno della famiglia: lavora, studia e aiuta la madre a mandare avanti la casa. Scacciata dalla Palestina nel ’48, e arrivata a Beirut dal sud del Libano nel ’51, la famiglia di lui piantò una tenda proprio su quel fazzoletto di terra dove poi è cresciuto l’edificio dove ci troviamo, ricostruito dopo le distruzioni degli anni Ottanta: è da cinquant’anni che vivono lì. Le case, quasi tutte in grezzo cemento armato a vista, a Chatila raggiungono altezze vertiginose: non è difficile contare fino a sei piani, oltre al piano terra e alla terrazza in cima, uno sull’altro sopra fondamenta inadeguate. Quasi si toccano l’un l’altra, incombendo, inquietanti, sopra un intricato dedalo di vicoli e di passaggi angusti, pieni di bambini vivacissimi che fanno a gara per farsi fotografare facendo con le dita il segno della vittoria. Nei campi palestinesi in Libano le abitazioni non dovrebbero superare i due piani, ma a Chatila la mancanza di spazio è tanto feroce che le autorità hanno chiuso tutti e due gli occhi: nel campo si accatastano circa 15 mila persone. Gli asili e le scuole, per chi ha la fortuna di andarci, fanno giocare i bambini in alto, sulla terrazza: bambini che non sanno cosa sia l’erba. Palestinesi, gli ultimi della società In Libano da mezzo secolo, paradossalmente i palestinesi restano indietro anche rispetto agli ultimi arrivati tra i lavoratori immigrati: pedina nel complesso scacchiere socio-politico-religioso libanese, non si vedono riconosciuti diritti elementari, perché in Libano molti temono che i diritti sarebbero l’anticamera della concessione della nazionalità, e la nazionalità ai palestinesi altererebbe il delicato equilibrio fra musulmani e cristiani. Benché in generale i palestinesi non aspirino alla nazionalità perché puntano sul «ritorno», e nell’attesa si accontenterebbero dei diritti. Così i palestinesi – che in Libano sono soltanto fra i 3 e i 4 cento mila – non possono esercitare oltre settanta mestieri (in pratica tutti i lavori qualificati) e non possono accedere ai servizi sociali libanesi: vivono di lavori umili e di quel tanto che può fare l’Unrwa (l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite), dell’aiuto di organizzazioni non governative, di forme di autorganizzazione: è il caso di un’associazione di donne che a Chatila coordina e si occupa di commercializzare in Libano e all’estero il ricamo tradizionale realizzato a domicilio, come forma di sostegno al reddito familiare, oltre che all’identità culturale, e che fra le numerose attività fa scuola per i bambini che che non hanno la possibilità di accedere alle carenti strutture scolastiche ufficiali. Clamorosamente, proprio in un momento tanto difficile per i palestinesi, il loro status in Libano è stato addirittura peggiorato: una legge recente proibisce ai palestinesi di possedere una casa e di trasmetterla in eredità ai propri figli. Chi era riuscito a comprarsene una, è ora costretto a disfarsene, in una situazione come è ovvio non favorevole. «Siamo pieni di quelli che in Germania si chiamano “gastarbeiter” – commenta sarcasticamente, incontrando la delegazione italiana, il leader druso Walid Jumblatt – filippini, siriani... perché allora non i palestinesi, che sono qui da cinquant’anni?». Disoccupazione e povertà estrema Le restrizioni fanno sì che il 60 per cento dei palestinesi in Libano viva al di sotto della soglia di povertà, che il 40 sia disoccupato, che il 10 si trovi in condizioni disperate: una percentuale, quest’ultima, peggiore di quella di Gaza. Dopo avere verificato la non confortante condizione dei vivi – di cui ha parlato, sollecitandolo ad intervenire, anche col Presidente libanese – la delegazione italiana ha reso omaggio ai morti deponendo fiori e piantando alcuni ulivi, simbolo della Palestina, nello spazio soprastante la fossa comune nella quale furono gettati i corpi di molte delle vittime della strage. Una cerimonia che quest’anno ha visto rafforzato il suo significato dall’apertura in Belgio di un procedimento giudiziario per crimini di guerra, su denuncia di una trentina di sopravvissuti, nei confronti di Ariel Sharon a proposito del massacro di Sabra e Chatila. Prima della mobilitazione italiana iniziata lo scorso anno, la fossa comune, che si trova nella animata zona del mercato di Chatila, era ricoperta da una discarica di rifiuti: dopo la bonifica il comune di Ghobeiry (il centro adiacente a Beirut da cui amministrativamente dipende Chatila) ha provveduto a tenere pulita l’area. Sopra l’ingresso nel frattempo è anche comparso un arco nero con una scritta bianca: «Cimitero dei martiri del massacro sionista di Sabra a Chatila». Il sindaco hezbollah di Ghobeiry pensa ora anche ad un concorso internazionale per la realizzazione di un monumento funebre. «Il migliore monumento che possiamo costruire alle vittime è però il processo a Sharon», ha affermato Stefano Chiarini, il giornalista del manifesto che è l’animatore dell’iniziativa italiana, in una conferenza stampa presso l’Ordine dei Giornalisti libanesi. Nel corso della quale, presente anche l’avvocato Chibli Mallat, estensore della denuncia contro Sharon, è stato ricordato che oggi ci sono testimoni pronti a confermare di essere stati feriti non da miliziani falangisti, ma da israeliani: la responsabilità dell’attuale primo ministro israeliano è tutt’altro che «morale». Nel pomeriggio di lunedì una manifestazione si è poi snodata attraverso il quartiere, fra slogan, fanfare di giovani palestinesi con cornamuse, trombe e tamburi, striscioni. Alcune migliaia di partecipanti, contro qualche centinaio negli anni scorsi. Ma soprattutto, per la prima volta, un gran confondersi di bandiere di organizzazioni diverse: Fronte Popolare, Amal, Hezbollah, Jihad...: non è poco per chi conosca la complessità di sigle dell’universo palestinese e filopalestinese e le sue contraddizioni. Segno che l’Intifada sta rimescolando le carte e anche che i morti di Sabra e Chatila cominciano a diventare morti di tutti.

Pubblicato il

28.09.2001 04:00
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