Da quindici anni è in vigore il Piano direttore cantonale. Esso recita (scheda 9.18-1) che «Il numero e l’estensione delle aree a lago accessibili al pubblico (…) sono insufficienti tanto per la popolazione residente quanto per quella turistica. I terreni ancora liberi che si prestano per sostenere la politica di messa a disposizione di aree di ricreazione a lago sono pochi e vanno dunque assicurati tramite la pianificazione locale». Nell’elenco delle aree a lago d’importanza regionale e locale figurano 130 mila metri quadrati fuori zona edificabile nel Comune di Melano e, sempre il Piano direttore si prefigge di «promuovere l’acquisto da parte degli enti pubblici delle aree ancora libere» (scheda 9.18-2). Ha dunque tutte le ragioni del mondo Bill Arigoni che in aprile aveva lanciato l’idea di comprare i 13 ettari di Melano al prezzo di terreno agricolo con una spesa complessiva di 1,6 milioni di franchi e che, inascoltato, ha presentato in agosto una mozione perché quei terreni siano subito fatti oggetto di un Piano di utilizzazione cantonale per assicurarne un futuro uso pubblico. Sinora, che si sappia, non è successo nulla di concreto, a parte l’avvio di un laborioso catasto sulla situazione delle rive dei laghi. Il governo dorme. L’iniziativa di Bill Arigoni è rivolta al futuro, mira all’uso collettivo del suolo, alla protezione delle rive del lago, ai valori territoriali nel loro complesso. Io, che sono un poco dei luoghi, vorrei raccontarne alcune storie, come se fossero ragioni in più per difenderli; per non vedere consegnati quei terreni, sia pure solo in parte, al disordine edilizio che sta sommergendo Melano. Si guardi quanto è avvenuto lungo la strada cantonale nei pressi della scuola comunale. Sui terreni a lago sorse negli anni ’20, sembra su disegno del grande ingegnere svizzero Robert Maillart, lo stabilimento dei Tannini, molto interessante dal profilo architettonico e delle tecniche costruttive del tempo. Quell’impresa ebbe effetti rilevanti, e in parte devastanti, sul territorio. Caddero sotto i colpi d’ascia di uomini che a gruppi di cinque o sei si mettevano in cerchio attorno al tronco, castagni che avevano ornato per secoli le selve dei dintorni e sfamato generazioni intere di contadini. Ma gli “squartoni” di castagno venivano anche da lontano, fin dalla Vallemaggia, per esempio. Bastava caricare un vagone a Bignasco perché giungesse diretto, col tempo che ci voleva, al binario di raccordo della fabbrica di Melano. Durante la strage dei sacri alberi, nei duri anni ’30 e ’40 molti operai della zona trovarono lavoro ai Tannini, riuscendo ad integrare in qualche modo il magro reddito della loro piccola terra. Ci volevano mani callose e braccia robuste perché il legno di castagno spaccato è fibroso e scabro, lacera la pelle e pesa come un accidente. Dopo qualche decennio tutto finì e i vecchi Tannini, con relativa ciminiera, furono abbattuti: altro evento da segnare nigro lapillo nell’album delle distruzioni dell’architettura moderna nel nostro cantone. Ma nei pressi di quei luoghi avvennero anche storie più minute, spesso tragiche. Come quella di quel muratore contadino dei dintorni, che salvatosi miracolosamente nelle trincee del Trentino nel ’14-’18, passata la cinquantina e afflitto da chissà quali tremende angosce era entrato una notte camminando diritto nel lago, con le tasche e la giacca piena di sassi e non ne era uscito più. O storie più allegre, come le appassionate e interminabili pasturazioni di tinche, o le temerarie e non sempre verosimili traversate a nuoto del lago da raccontare poi per vanteria. So bene che tutte queste storie non c’entrano con l’acquisizione per interesse pubblico dei terreni di Melano secondo la mozione del Bill. Ma le ho scritte lo stesso per dire che un terreno non si misura solo in metri quadrati e in coefficienti di edificabilità; contano anche le storie che vi stanno in certo qual modo sepolte. Secondo me sono ragioni in più per avere un grande rispetto della terra sulla quale abitiamo.

Pubblicato il 

18.11.05

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