Con un occhio al passato e l’altro rivolto al futuro: così il 5 novembre nel congresso di giubileo al Kursaal di Berna l’Unione sindacale svizzera (Uss) celebrerà i suoi 125 anni. Il programma della giornata prevede i discorsi del presidente dell’Uss Paul Rechsteiner, della consigliera federale Micheline Calmy-Rey a nome del governo, di Christine Goll della Vpod e di Vasco Pedrina di Unia, e gli interventi del regista Alexander Seiler, della scrittrice Ruth Schweikert, dell’ex consigliera federale Ruth Dreifuss, del presidente dell’Unione internazionale dei sindacati liberi John Monks, del politologo Hans Kriesi e della sociologa Rosita Fibbi. Che tutto il congresso sia segnato da uno sguardo all’indietro e da un altro in avanti lo dimostra anche il programma ricreativo: al coro che eseguirà i tradizionali canti di lotta si alternerà il rapper Greis, alla ricostruzione scenica di eventi storici farà da contrappunto la proiezione di un progetto di videoarte sul mondo del lavoro. Anche il dossier di area di questa settimana è dedicato ai 125 anni dell’Uss. Nelle prossime tre pagine proponiamo delle riflessioni storiche attente alle nuove sfide del sindacato, con un’attenzione particolare alla Svizzera italiana, spesso trascurata anche in questo genere di occasioni. Ma cominciamo con un’intervista pienamente centrata sull’attualità al presidente dell’Uss Paul Rechsteiner, che si dice convinto che i sindacati hanno in mano il loro destino: se nei fatti e ogni giorno lottano per la tutela del lavoro e per i diritti dei lavoratori, ne può nascere una controffensiva politica. Con la loro campagna contro il lavoro domenicale i sindacati si sono attirati le ire di molti mass media. Persino alcune donne socialiste di Zurigo vogliono che i negozi siano aperti anche la domenica. Paul Rechsteiner, è un confronto fra sindacalisti conservatori e di sesso maschile da un lato e giovani ed urbani modernizzatori dall’altro? No, una tesi così non ha senso. Sempre lo smantellamento delle conquiste sociali viene camuffato da modernizzazione. Noi chiediamo: a chi serve l’estensione del lavoro domenicale? Certamente non a coloro che lavorano e alle loro famiglie. Il giorno libero dal lavoro è una conquista sociale. Si è lottato per questo. Che tutti abbiano libero allo stesso giorno rende possibili feste, incontri, avvenimenti, insomma una vera vita sociale. Chi crede che il 27 novembre si voti soltanto su un paio di negozi di stazione si sbaglia: la riforma mira in realtà a fare di ogni giorno un giorno lavorativo. I partiti borghesi in parlamento hanno deciso che questa estensione dev’essere soltanto un primo passo verso l’introduzione del lavoro generalizzato alla domenica. Alla fine ci rimetterebbero tutte le lavoratrici e i lavoratori, persino quelli che già oggi devono lavorare alla domenica – perché le imprese non riconoscerebbero più il supplemento per il lavoro domenicale. È proprio quanto tentano di fare le Ffs. Il lavoro domenicale è soltanto una parte dell’offensiva neoliberale per un peggioramento delle condizioni di lavoro. C’è sempre meno lavoro e le condizioni d’impiego sono sempre meno sicure. C’è chi parla della fine della società del lavoro. Che cosa possono rispondere i sindacati? L’importanza del lavoro remunerato cresce costantemente in Svizzera, in barba alle leggende sulla fine del lavoro. Il numero dei salariati, e soprattutto quello delle donne che lavorano, continua ad aumentare. Questo è uno dei grossi cambiamenti degli ultimi anni, esattamente come lo è il nuovo rapporto fra i sessi. Il lavoro è un valore centrale attorno cui è organizzata l’intera società. E paradossalmente la disoccupazione aumenta ancor più l’importanza di questo valore. Perché la disoccupazione mette tutti in riga. Per potersi vendere meglio sul mercato del lavoro i disoccupati devono diventare sempre più collocabili. Invece di agire sulle imprese o sugli investimenti si agisce sulla gente. Se attraverso questo processo riescono ad ottenere nuove qualifiche non è certamente un male. Ma molto più problematiche sono le conseguenze quando il lavoro ed il lavoro soltanto decide sull’identità di una persona o sulla sua esclusione dalla società. Molti vengono costretti ad accettare condizioni d’impiego sempre più precarie: lavorano su chiamata o alla sera o per un salario di cui non possono nemmeno vivere. Altri, che hanno un lavoro, soffrono invece per l’estrema intensità di questo lavoro. Per questo le condizioni di lavoro, il livello degli stipendi e la chiara delimitazione del tempo libero sono molto importanti. Da ciò derivano le nostre lotte per gli stipendi, per l’Avs, per le misure d’accompagnamento. Sono piuttosto temi classici per un sindacato… … ma sono temi centrali per il futuro del nostro paese. I salari determinano il tenore di vita. Il potere d’acquisto influisce in parte sull’andamento dell’economia. La nostra campagna per salari minimi di 3 mila franchi ha successo. La limitazione del tempo di lavoro, sia di quello giornaliero che di quello sull’arco di una vita, determina la qualità di vita. Per questo lottiamo per un pensionamento flessibile fra i 62 e i 65 anni di età. Una flessibilità che sia sociale: chi vuol smettere di lavorare deve poterlo effettivamente fare prima dei 65 anni. Il futuro dello Stato sociale, l’altra grande conquista del movimento operaio, dipenderà ancora dalla paga e dalla sicurezza del lavoro. Da anni lo Stato sociale viene attaccato. Noi siamo la forza che può impedire che venga distrutto. I redditi medi e bassi devono crescere. E il maggior numero possibile di persone deve poter accedere ai processi lavorativi affinché possa concretizzare le sue aspirazioni. Questo riguarda soprattutto i giovani: tutti coloro che hanno fra i 16 e i 20 anni devono avere una possibilità di accesso al mercato del lavoro. E ciò può accadere se costringiamo la politica a riprendere di nuovo la strada del pieno impiego. Pieno impiego? È un concetto che oggi si sente ancora di rado. Coloro che danno per superato il pieno impiego perseguono in realtà degli obiettivi inconfessabili: vogliono interrompere la lotta alla disoccupazione. Dicono che l’attuale evoluzione del capitalismo globale è inevitabile. Sarebbe una legge della natura. Quanto questa tesi sia sbagliata lo dimostrano i successi di quegli Stati che attuano una politica economica attiva, che investono in formazione, infrastruttura e sanità. L’economia mondiale è in espansione, mai ci sono stati in circolazione così tanti soldi come oggi – il fatto è che sono ripartiti in maniera molto diseguale. La zona dell’euro è in una condizione piuttosto critica e con lei la Svizzera, proprio perché non si sfruttano le possibilità di una politica economica attiva. Questo laissez-faire è tutt’altro che una legge di natura: segue piuttosto il programma delle trasformazioni neoliberali, secondo cui il lavoro deve diventare meno protetto, dunque più docile, e i sindacati devono essere indeboliti. Un esempio: i bassi salari tedeschi dopo le riforme Hartz. In Svizzera c’è chi vuole introdurre salari da mille franchi. Si vuole dividere il salario dalla garanzia dell’esistenza. Come vuole fare per opporsi? Ogni sistema funziona a lungo termine soltanto se le persone si possono identificare con le condizioni che vi regnano. Tutto questo è però diventato molto fragile, come dimostrano le elezioni tedesche, il no francese alla costituzione europea o i referendum contro il pacchetto fiscale e l’undicesima revisione dell’Avs. Il consenso per il sistema è minore di quanto si creda. Detto altrimenti: la questione sociale sta diventando il tema politico decisivo. D’accordo, ma chi la fa diventare il tema decisivo? Per molto tempo il Partito socialista ha condiviso le liberalizzazioni, le privatizzazioni e gli attacchi allo Stato sociale. I sindacati stanno proprio sperimentando che la loro lotta per il lavoro e per una democrazia sociale acquista sempre più importanza. Non credo che il Partito socialista accetterebbe un ulteriore smantellamento dello Stato sociale. Il Pss sa che nel 2007 può vincere le elezioni se pone al centro del dibattito politico la questione sociale. Ma ad una holding che cancella i suoi posti di lavoro in Svizzera questo importerà ben poco. Lei sottovaluta la sensibilità delle imprese per azioni che hanno una visibilità pubblica. Nel sistema economico odierno il marketing e l’immagine hanno una grossa importanza. Per questo i sindacati si appropriano di nuovo e con successo di un vecchio strumento come lo sciopero. Uno strumento che dagli anni ’50 era stato bandito. Ora i sindacati si sono invece resi conto che lo sciopero in certe situazioni è un diritto e una necessità. Le nostre organizzazioni sono in rapida evoluzione. Stiamo di nuovo conquistando giovani iscritti. La quota femminile aumenta, per quanto sia ancora troppo bassa. Ora stiamo anche estendendo l’organizzazione del settore dei servizi. Avrei preferito se avessimo preso le necessarie decisioni in questo senso già 20 anni fa. Ma con la costituzione di Unia nel 2004 abbiamo ora creato uno strumento davvero forte. Un evento epocale per i sindacati. La piccola Unia, quella che era il sindacato del settore dei servizi fondato nel 1996, aveva guadagnato 20 mila membri in appena otto anni. Anche l’apertura agli impiegati e alle organizzazioni professionali rafforza la posizione dei salariati: 35 mila hanno già raggiunto i ranghi dell’Uss. La politica pare aver dimissionato dalle sue responsabilità di fronte all’economia. I sindacati stanno assumendo il ruolo dei partiti di sinistra? Non siamo un partito. Ma la questione sociale è sempre più centrale. Noi dobbiamo lottare sul terreno e ogni giorno per la tutela del lavoro e per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Tocca ai sindacati condurre la lotta sulle questioni sociali. Da ciò nascerà una controffensiva politica.

Pubblicato il 

28.10.05

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