Il quarto congresso di Unia chiusosi sabato scorso a Bienne è stato l’ultimo in veste di dirigente per Rita Schiavi, che a fine gennaio andrà in pensione. L’abbiamo incontrata per una chiacchierata di bilancio. Classe 1955, figlia di immigrati italiani, nata e cresciuta a Zurigo ma trapiantata a Basilea («città più aperta e più di sinistra, che preferisco di gran lunga», afferma), ha dedicato la sua vita professionale quasi interamente al sindacato, di cui gli ultimi sedici come membro della direzione.Ma è anche impegnata in politica e nell’aiuto umanitario, attività che non a caso continuerà a svolgere anche dopo il pensionamento: «Continuerò a fare lavoro sindacale mantenendo degli impegni a livello internazionale, ad occuparmi di donne e di migrazione così come di aiuto e sostegno ai popoli, a quello curdo in particolare”, racconta ad area dicendosi «contenta» che sia arrivato il momento della pensione: «Sento di non avere più quarant'anni e gli spostamenti quotidiani tra Basilea e Berna (sede centrale di Unia, ndr) mi cominciavano a pesare. E poi mi rallegro del fatto che avrò più tempo da dedicare all’impegno politico e alla solidarietà internazionale”. Che ricordi hai della tua infanzia di bambina nata a Zurigo da genitori italiani a metà degli anni Cinquanta? Mio padre nacque qui in Svizzera, dove la sua famiglia si era trasferita già nel 1904, per poi tornare in Italia durante la Prima guerra mondiale e rientrare successivamente a Zurigo. Qui ci fu l’incontro con mia madre, anche lei emigrante: era giunta in Svizzera nel 1948 insieme alla sorella. Entrambe avevano una buona formazione, mia mamma era ostetrica e mia zia insegnante, ma non hanno potuto svolgere le loro professioni solo dopo 25 anni mamma ha potuto lavorare ancora per qualche anno da ostetrica. Prima lavoravano nei ristoranti. Mia mamma sarebbe voluta tornare in Italia ma poi ha incontrato mio padre ed è rimasta. Ricordo che ha sempre sofferto molto la condizione di migrante, perché a quell'epoca noi italiani eravamo trattati male, come succede purtroppo oggi agli africani. La cosa più triste che ricordo è il racconto di una vicina di casa, la quale notò come mia mamma, cui piaceva cantare quando sbrigava le faccende di casa, ad un certo punto smise di farlo. Il migrante non doveva “disturbare” e perciò anche mai sorella, mio fratello ed io dovevamo essere silenziosi e tranquilli. Questo clima di ostilità nei confronti degli italiani lo percepivi in prima persona già da bambina? Sì, per varie ragioni. Nei primi anni di vita, non capendo il tedesco, non riuscivo a relazionarmi con i miei coetanei e questo mi faceva sentire diversa. Alle scuole elementari ero l'unica straniera in classe e venivo chiamata “Tschingg”. E lo stesso capitava al ginnasio, una scuola tra l’altro a cui il mio insegnante delle elementari non riteneva necessario prepararmi visto che ero un'immigrata e una donna. Per fortuna i miei genitori mi hanno aiutata a fare questa scelta e mi hanno sempre sostenuta. Ho poi vissuto dei problemi d'identità, perché in Italia (dove tornavamo spesso) ero considerata la svizzera e qui ero l'italiana. Non è un caso che il passaporto svizzero l’ho preso solo a 30 anni e per effetto (all’epoca ancora automatico) del matrimonio con un cittadino svizzero. Del resto, credo che non ce l'avrei fatta a inoltrare domanda di naturalizzazione perché a 20anni ero già di sinistra e bisognava nascondere la propria opinione politica per farsi svizzera! E anche mio padre, pur avendo vissuto gran parte della sua vita qui, è morto da italiano a 92 anni. Quelli della tua gioventù erano gli anni delle iniziative contro l’inforestierimento di James Schwarzenbach, che suscitavano molta paura nelle comunità straniere ma che fortunatamente venivano respinte dal popolo svizzero. Oggi invece proposte altrettanto estremiste e xenofobe, come l’iniziativa contro l’immigrazione cosiddetta “di massa” o “prima i nostri” in Ticino, vengono accolte. La Svizzera sta tornando indietro? Certamente. Anzi la situazione di oggi è per certi versi ancora peggiore: le iniziative della destra estrema ora vengono accettate da una maggioranza e spesso anche da immigrati naturalizzati! Perché a tuo giudizio la Svizzera sta tornando indietro? Purtroppo la xenofobia è ed è sempre stata presente nella popolazione Svizzera (così come in quella di altri paesi europei), soprattutto nella classe media. A mio giudizio si tratta di una paura solo in parte legata alle preoccupazioni per la salvaguardia del proprio posto di lavoro. Essa è anche figlia di un diffuso sentimento d’invidia di un popolo con dei complessi d’inferiorità. Complessi in parte anche giustificati, tenuto conto che il nostro modello scolastico non è affatto il migliore di tutti come si riteneva fino a qualche tempo fa: basti pensare che abbiamo il tasso di maturità più basso d'Europa. L'approvazione dell'iniziativa “contro l'immigrazione di massa”, eccezion fatta per realtà come il Ticino dove il dumping salariale è un problema grave e reale, è stata resa possibile da questi sentimenti d'invidia nei confronti di persone colte e formate che vengono dall'estero per occupare posti prestigiosi e ben retribuiti. Le iniziative xenofobe incontrano in parte anche il sostegno della classe operaia. Il sindacato ha compiuto degli errori nel non coltivare a sufficienza la solidarietà tra tutti i lavoratori? Più della metà dei nostri affiliati non ha il passaporto svizzero e credo che come Unia siamo riusciti a coltivare il valore della solidarietà. Se abbiamo ottenuto il prepensionamento a 60 anni nell'edilizia è grazie ai tanti lavoratori stranieri che hanno consentito la riuscita delle mobilitazioni e degli scioperi. E questo viene anche riconosciuto dai colleghi svizzeri. Il problema del sindacato è che riesce ancora a essere influente nei settori in cui è presente (in alcuni più che in altri) ma non nella società nel suo complesso. Come sei approdata nel sindacato? Tutto iniziò con l’impegno a livello politico in seno all’allora Poch – Organizzazioni progressiste della Svizzera, formazione politica nata nel 1971 nel quadro del movimento comunista internazionale e presente in varie città svizzere fino all'inizio degli anni Novanta, ndr- , a cui aderii quando avevo vent’anni. Iniziai l’attività sindacale come membro del “Gruppo fabbrica”, che tra l'altro contestava l'operato dei sindacati, in particolare dell'allora Flmo. Ricordo per esempio che quando vi furono dei licenziamenti alla SRO di Zurigo-Oerlikon contro cui la Flmo non fece nulla, noi come Poch organizzammo un'assemblea cui parteciparono moltissimi operai. L’esperienza sindacale vera e propria iniziò invece nel 1979 nella Ftcc (Federazione del personale dei tessili, della chimica e della carta), dove ho lavorato come segretaria sindacale per 8 anni. Qual è il tuo bilancio? Mi sento molto privilegiata per aver lavorato tutta la vita nei sindacati perché così ho potuto conciliare le mie idee politiche con il lavoro. Come è cambiato il sindacato? L'epoca di maggiore euforia della mia carriera professionale è stata quella del Sindacato edilizia e industria, una realtà forte e di lotta. La nascita di Unia ha sicuramente costituito un passo importante, ma la sua dimensione per certi versi costituisce un problema, perché obbliga a diventare sempre più professionali ma non sempre in senso positivo. Mentre un tempo si andava a lavorare nel sindacato con una forte convinzione politica, oggi è difficile trovare figure così e spesso dobbiamo assumere gente che fa sindacalismo semplicemente come lavoro. La paura di esporsi sui luoghi di lavoro e la crescita dell'individualismo nella società hanno poi anche un po' intaccato la quantità e la qualità dei militanti attivi. |