È un accordo politico, una valutazione, un rapporto di forza. Non c'è molto di più da capire. Gli accordi internazionali sono anche bracci di ferro fra Stati. Nel 1979 si è giunti ad una convenzione con l'Italia. Da allora le cose sono cambiate, è un altro mondo. Sono cambiate le dinamiche, la mobilità, il concetto stesso di frontaliere. La Svizzera ora ha pattuito un accordo con l'Austria con un'aliquota al 12,5 per cento. Per quale motivo il Ticino deve invece continuare a pagare il 40 per cento?». Sta tutto qui nelle parole di Marco Bernasconi, esperto fiscale, il nocciolo della questione dei ristorni fiscali che vede contrapposto più che la Svizzera all'Italia, il Ticino a Berna. Dopo la pubblicazione del corposo articolo di Marco Bernasconi e Donatella Ferrari sulle colonne del Corriere del Ticino del 17 aprile scorso sono fioccate le interrogazioni parlamentari, da sinistra a destra, su quella che è ritenuta una disparità fiscale che Berna attua nei confronti del Ticino (ma anche di Vallese e Grigioni che sottostanno alla medesima convenzione). Quasi tutti si chiedono per quale motivo il governo cantonale non si sforzi di far sentire con più peso la propria voce alle autorità federali che dovrebbero, queste ultime, rinegoziare il trattato con l'Italia. Anche perché in tempi di risanamento delle casse cantonali la riduzione del riversamento, se allineato con l'Austria al 12,5 per cento, significherebbe 20 milioni in più per le casse di Cantone e Comuni (si veda la tabella in pagina). Ma se da una parte è corretto chiedersi se è giusto che la Svizzera in marzo firmi un trattato che prevede il ristorno di soli 12,50 franchi su 100 all'Austria di imposte alla fonte prelevati sui salari degli austriaci attivi in Svizzera – mentre Ticino, Vallese e Grigioni devono ridarne 40 – dall'altra, estraniandosi dal contesto politico (che in realtà in questa faccenda resta centrale), bisognerebbe chiedersi anche quale è la corretta proporzione da riversare.
«Il 40 per cento è una valutazione che i due paesi hanno pattuito per compensare i costi di servizi e infrastrutture che i comuni italiani di frontiera devono sostenere per i loro residenti in Svizzera. È un accordo, una faccenda politica», ha ribadito Bernasconi sollecitato da area per l'ennesima volta sulle ragioni di queste percentuali. Ed è vero – non ci si può capire molto -– perché nessuno è in grado di spiegarvi per quale motivo la Svizzera si dovrebbe tenere l'87,5 per cento dei proventi dell'imposta alla fonte percepita sui redditi conseguiti dai frontalieri residenti in Italia, ma attivi in Svizzera come lavoratori dipendenti. Frontalieri che lavorano "di qua" e vivono "di là" usufruendo dei servizi del comune – italiano – di domicilio.
«Quello che è certo – ci ha detto Pietro Vittorio Roncoroni, sindaco del comune italiano Lavena Ponte Tresa – è che per i comuni di frontiera le conseguenze sarebbero disastrose. Ci sono voluti 30 anni per costruire questo equilibrio». Un equilibrio messo in discussione da un trattato – chiesto addirittura dall'Austria che teme la fuga di contribuenti verso la Svizzera che vi prendono domicilio – che se rivisto rischia di avere pesanti ripercussioni sui comuni italiani che dipendono fortemente dalle imposte alla fonte dei loro frontalieri.

Lavena Ponte Tresa: dipendente dai frontalieri

Pietro Roncoroni, sindaco di Lavena Ponte Tresa, ci dice con una punta di soddisfazione di «incarnare la frontiera». È stato infatti frontaliere per 13 anni varcando ogni giorno la dogana italo-svizzera per andare a lavorare in un'impresa edilizia del Canton Ticino. Sa quindi di cosa parla quando si esprime sulla vita del frontaliere, ma anche sull'importanza per un comune come il suo del ristorno fiscale che la Svizzera versa annualmente all'Italia. Ogni giorno da Lavena Ponte Tresa partono 1'149 frontalieri, direzione Svizzera. Nel comune a ridosso del confine sono ben 6 lavoratori su 10 che spendono la loro vita professionale sul territorio elvetico. Frontalieri che pagano le imposte, dedotte direttamente dalla busta paga mensile, in Svizzera ma che vivono in Italia. Nei loro comuni di residenza mandano i figli all'asilo, vi gettano i rifiuti, passeggiano la domenica sulla piazza di paese, ... Ragione per la quale su 100 franchi di imposta quasi 40 sono riversati all'Italia da ormai 30 anni. Ora il Ticino chiede a Berna di rivedere la quota dal 40 al 12,5 per cento. Quali sarebbero le conseguenze per i comuni italiani di frontiera? Come si giustifica da un punto di vista sostanziale la nuova aliquota?

Pietro Roncoroni – sindaco di Lavena Ponte Tresa – e Sara Zanetti – funzionario amministrativo – sono molto ferrati sull'argomento. Il piccolo comune a ridosso della dogana svizzera ha infatti la presidenza dell'Associazione "60 comuni di frontiera", che è presente nelle riunioni annuali della delegazione italo-svizzera che tratta il tema della fiscalità fra i due paesi. Lavena Ponte Tresa è uno dei paesi più toccati dal fenomeno del frontalierato: il 60 per cento dei suoi lavoratori è attivo in Svizzera.
Il sindaco si dice alquanto perplesso per il polverone che ha creato il nuovo accordo che la Svizzera ha siglato in marzo con l'Austria sul ristorno fiscale. Il nuovo accordo prevede una quota del 12,5 per cento, raggiunta fra Berna e Vienna senza tener conto che Ticino, Vallese e Grigioni sono tenuti a versare il 40 per cento delle imposte alla fonte. «Non sappiamo quali sono i termini dell'accordo fra Svizzera e Austria – ci dice Sara Zanetti –, che tipo di frontalierato c'è in quelle zone e quale sia la casistica. E non riesco a capire neppure per quale motivo si sia scesi addirittura fino al 12,5 per cento». «Sappiamo solo – aggiunge il sindaco – che l'accordo che ci riguarda è stato raggiunto 30 anni fa fra Berna e Roma ed è stato ed è ancora fondamentale per lo sviluppo e la sopravvivenza di comuni come il nostro dove il fenomeno del frontalierato è tanto forte».
Nei conti di Lavena Ponte Tresa, alla voce "entrate", il ristorno fiscale si attestava nel 2006 a 1,2 milioni di franchi. Cioè un quarto della somma a disposizione del Comune. «Questi introiti hanno rappresentato e rappresentano tutt'oggi una garanzia per la sopravvivenza e lo sviluppo della nostra comunità. Non solo da un punto di vista economico, ma anche per mantenere vivo il nostro tessuto sociale». I ristorni fiscali che i comuni di frontiera ricevono sono infatti subordinati ad una legge che prevede una specifica destinazione per questi proventi. Le imposte pagate dai frontalieri devono essere investite in infrastrutture per lo sviluppo e la vivibilità dei comuni come la costruzione di scuole, case sussidiate, ospedali, acquedotti, fognature, trasporti pubblici, viabilità,... I proventi dell'imposta alla fonte non possono essere impiegati per la gestione corrente.
E la prospettiva di una riduzione di un terzo di questa somma? «Il 12,5 per cento sarebbe disastroso per noi, una catastrofe. Significherebbe diventare una zona depressa – dice ad area Roncoroni –. Non si possono cambiare equilibri che si sono costruiti in 30 anni».
Ma come si giustifica – oltre alle ragioni politiche interne alla Svizzera – la riduzione dal 40 per cento al 12,5 per cento? Marco Bernasconi, esperto fiscale elvetico che ha trattato il tema con uno speciale sul Corriere del Ticino, ha spiegato ad area che «la figura del frontaliere è cambiata. Non è più quella persona che entra la mattina in Svizzera ed è obbligata per legge a rientrare in Italia la sera. Dal primo giugno del 2007 verrà abolito il concetto stesso del frontaliere. È cambiato il mondo in 30 anni. Le abitudini sono cambiate e l'accordo va rinegoziato anche alla luce del trattato con l'Austria».
Un cambiamento, cioè quello delle abitudini dei frontalieri, che Pietro Roncoroni non riesce invece a cogliere. «Sono 30 anni che da Lavena Ponte Tresa ogni mattina facciamo almeno un'ora di colonna per raggiungere il posto di lavoro in Svizzera, e un'altra ora la sera per tornare a casa. Non vedo cosa sia cambiato, cosa possa giustificare una minore spesa per il nostro comune. La colonna è lì fra Lugano e Ponte Tresa a testimoniare questa situazione».
Il sindaco di Lavena Ponte Tresa è nato a Sorengo, in Svizzera, da nonno svizzero e ama definirsi «cittadino senza frontiere». Come sindaco del suo comune non riesce e spiegarsi le ragioni di una riduzione delle entrate fiscali alla voce "frontalieri". «Non riesco proprio a capire. Per noi non ci sarebbe modo di recuperare i soldi che perderemmo. Il trattato con la Svizzera sull'abolizione della doppia imposizione ci lega le mani – afferma Roncoroni –. La frontiera divide una zona residenziale da una produttiva. La prima siamo noi, la seconda è il Ticino che impiega i nostri cittadini. Con un beneficio che non è solo nostro, ma anche vostro. Siamo l'una dipendente dall'altra e ci siamo costruiti un equilibrio. Che non possiamo mettere ora in pericolo».
I comuni di frontiera italiani stanno preparando un libro da regalare alla Svizzera, vogliono mostrare cosa è stato fatto in 30 anni con i soldi dei "loro frontalieri". Chissà se sarà un regalo gradito.

Non sono solo percentuali

Lo stesso giorno in cui Marco Bernasconi e Donatella Ferrari presentavano sulle pagine del Corriere del Ticino la "curiosa" diversità che esiste fra il nuovo trattato che la Svizzera ha siglato con l'Austria sul riversamento delle imposte alla fonte dei lavoratori austriaci attivi in Svizzera con quello esistente con l'Italia il parlamentare pipidino Gianni Guidicelli inoltrava la prima interrogazione sul tema all'indirizzo del governo ticinese. Il giorno seguente anche Manuele Bertoli (Ps) ha chiesto spiegazioni. Poco dopo sullo stesso tema hanno scritto anche Lorenzo Quadri (Lega) e Moreno Colombo (Plr). Tutti chiedono in sostanza al Consiglio di Stato cosa intende fare per fare pressione a Berna. Lo scopo è quello di rinegoziare un trattato, quello con l'Italia, che se rivisto potrebbe riportare nelle casse di Cantone e Comuni una ventina di milioni, soldi che in tempo di "risanamento delle casse" fanno gola a tutti. «Il ristorno dovrebbe essere diminuito almeno dall'attuale 38,8 per cento al 12,5 che è stato pattuito in marzo con l'Austria», ci ha detto Marco Bernasconi. Il suo ragionamento non fa una grinza. Per quale motivo la Svizzera avvantaggia fiscalmente i cantoni confinanti con l'Austria e invece non muove un dito per Ticino, Vallese e Grigioni?
Hans Rudolf Merz ha già fatto sapere che non intende fare nulla e sarà davvero difficile smuoverlo. Non vuole gettare sassolini nelle già agitate acque della fiscalità con l'Unione europea.
Quello che a noi fa impressione è che oltre alle ragioni del tipo "Berna contro Ticino" nessuno, né a destra né a sinistra, si sia preso la briga di chiedersi cosa sta dietro a queste percentuali. Come si giustifica che su 100 franchi di imposte alla fonte il Ticino si tiene 60 franchi e che ora chiede di salire a 87? Quali sono i servizi che vengono forniti ai frontalieri che giustificano una tale trattenuta? In Italia ci vivono, ci mandano i figli a scuola, ci muoiono. Per il Ticino i 35 mila frontalieri che ogni giorno varcano il confine sono una risorsa della quale non può fare a meno – volente o nolente –,  siamo noi che ci siamo costruiti questo tessuto economico. Siamo ancora "l'economia a rimorchio".
Marco Bernasconi ha ribadito che «il 40 per cento è un accordo politico» e poi ha aggiunto «per un lavoro più approfondito sui reali costi ci vorrebbe un economista regionale». Non solo, ci vorrebbe anche un dibattito politico, aggiungiamo noi.

Pubblicato il 

04.05.07

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