Rischio «dumping»

Abbiamo chiesto anche a Furio Bednarz – della Direzione del Ps Ticino e ricercatore della Fondazione Ecap – quali saranno le conseguenze più immediate degli accordi bilaterali tra Svizzera e Unione europea sul mercato locale del lavoro, con particolare riguardo alle problematiche della formazione, delle quali direttamente si occupa Signor Bednarz, maggiore libertà di circolazione della manodopera significa maggiori rischi di pressione, soprattutto salariali, sul mercato del lavoro e minore qualificazione professionale? In primo luogo credo vada detto che, nonostante l’importanza dell’entrata in vigore degli accordi bilaterali dopo anni di trattative e un lungo iter di approvazione, le reali prospettive di applicazione delle nuove norme in essi definite appaiono ancora complessivamente incerte. Questo vale in particolar modo per uno dei temi «caldi» degli accordi: la libera circolazione delle persone. Soprattutto per quanto riguarda il lato delle politiche sociali e formative. È comunque fuori di dubbio – se analizziamo i meccanismi previsti dagli Accordi – che le conseguenze più immediate si verificheranno negli equilibri che regolano i mercati del lavoro delle regioni di frontiera, da sempre interessate da flussi di manodopera frontaliera. Dobbiamo attenderci quindi, impatti importanti in un’area sensibile a queste problematiche, come la Regio Insubrica, quel territorio transfrontaliero che comprende il Ticino (unico cantone che tra l’altro si è pronunciato contro gli Accordi!) e le province lombarde e piemontesi di frontiera. Questo territorio sarà interessato in modo importante sia dalle specifiche misure in materia di apertura della concorrenza e degli appalti, sia dalla libera circolazione della manodopera (compresi i lavoratori indipendenti) e dall’evoluzione delle politiche dei trasporti. Anche qui, per quanto siano avvertiti taluni rischi, la soddisfazione per il varo degli Accordi, è in realtà emersa piuttosto generale tra gli operatori economici sia italiani che svizzeri, mentre una certa prudenza si è riscontrata sul versante sociale. In realtà le conseguenze nel breve termine non sono facilmente prevedibili e pertanto ci pare indispensabile un’azione tempestiva di monitoraggio, anticipando ad esempio, le cosiddette misure di accompagnamento previste dalla stessa normativa, ma pensate per tempi successivi, ovvero una volta caduto il vincolo della priorità a favore dei lavoratori locali e dei contingenti. Un tempo che adesso ci pare troppo lungo per affrontare i cambiamenti che si verificheranno. Ma questi accordi con l’Unione europea porteranno a significative liberalizzazioni o snellimenti dell’accesso delle imprese svizzere al mercato del lavoro transfrontaliero, con i rischi che qualcuno paventa – anche tra coloro che si sono pronunciati per principio a favore degli Accordi – ovvero la crescita della disoccupazione locale e i fenomeni di dumping salariale? Mi pare, innanzitutto, che oggi permanga forte incertezza e scarsa informazione sulle condizioni concrete di applicazione dei bilaterali. L’entrata in vigore della libera circolazione sarà assai graduale. Nonostante questa gradualità lenta di applicazione, alcuni potenziali importanti effetti nel breve e medio periodo (interessanti in particolare nelle aree di frontiera e in comparti come quello dell’edilizia) si potranno comunque verificare, e andranno monitorati. Ci sono particolari aspetti da controllare, da questo punto di vista. Pensiamo al forte impulso che sarà nei fatti dato ai permessi di corta durata (inferiori ai 4 mesi). O a talune agevolazioni concesse proprio al lavoro frontaliero, che saranno di applicazione immediata (certo non preoccupa l’abolizione del rientro serale obbligatorio, quanto la possibilità di svolgere lavoro autonomo, in un momento in cui forme atipiche e indipendenti di impiego vengono sempre più spesso utilizzate dalle imprese locali per flessibilizzare e di fatto precarizzare l’impiego). Se nel breve e medio termine (5 anni) assai poco, o nulla, cambierà dal punto di vista delle procedure di concessione dei permessi di lavoro, effetti di breve e medio periodo si registreranno molto probabilmente. Le vie saranno due: 1) attraverso la forte diffusione del lavoro legato a permessi di corta durata (con problemi di controllo, di sicurezza sociale, e di concorrenza tra fasce deboli del mercato del lavoro); 2) con la diffusione dell’artigianato e dei servizi transfrontalieri, che darà quanto meno la chance di far riemergere una quota del crescente lavoro nero che già oggi avviene. È lecito attendersi, insomma, un’applicazione «in tono minore» dei principî di libera circolazione sanciti dai bilaterali, ma non per questo non priva di conseguenze significative sui mercati locali del lavoro, e sui sistemi di sicurezza sociale. Insorgeranno, quindi, nuovi problemi legati alla rappresentanza e alla tutela di questi lavoratori. Non sorprendono pertanto i timori sottolineati dal sindacato: essi riguardano «l’effetto annuncio» e lo sviluppo di pratiche che renderanno più difficile il controllo delle condizioni di lavoro e salariali, incentivando i fenomeni di dumping, mentre già ora – in particolare in settori come l’edilizia – è estremamente complessa la negoziazione degli inquadramenti dei lavoratori (su cui si gioca in buona parte la concessione dei permessi e l’applicazione dei Ccl). I timori del sindacato sono fondati, ma sarebbe errato gettare, come si dice, il bambino con l’acqua sporca. I problemi non si possono affrontare ipotizzando chiusure che dividano il fronte del lavoro. Qui entrano prepotentemente in campo la formazione, e l’orientamento dei lavoratori, oltre alla rappresentanza dei loro diritti. La realtà è che se non affrontata aiutando le fasce deboli del mondo del lavoro, la modifica degli equilibri nel mercato frontaliero provocherà contraccolpi dannosi su entrambi i versanti della frontiera: qui aumentando la concorrenza tra lavoratori «indigeni» e comunitari, là privando il tessuto economico delle sue migliori risorse. Personalmente – ma non sono il solo – credo che formare i lavoratori a debole o a «media» qualificazione, magari in professioni in rapido mutamento, sia l’unica risposta alla «minaccia» rappresentata dalla maggior apertura delle frontiere. Questi lavoratori sono ancora numerosi in Ticino: serve una grande offensiva come quella che una decina di anni fa fu lanciata dal Sindacato, in collaborazione con la Fondazione Ecap, con il sostegno determinante dell’amministrazione cantonale, per qualificare i lavoratori dell’edilizia. Bene: quella campagna pensata per rispondere a problemi di crescita e qualità del settore – chiamata emblematicamente «Progetto frontalieri» – ebbe invece un impatto importante nella crisi, consentendo alle centinaia di lavoratori che investirono nella formazione – domiciliati e frontalieri assieme! – di salvaguardare il loro posto di lavoro e le loro carriere professionali. Ma al tempo stesso essa permise alle aziende di uscire dalla crisi con forze più qualificate, scongiurando il pericolo di un degrado del settore. Gli accordi propongono un’opportunità importante, quella del riconoscimento reciproco dei titoli di studio e delle qualifiche. La sfida chiave è quella di riconoscere le competenze dei lavoratori frontalieri e tradurle in qualifiche spendibili sul mercato locale del lavoro. È questo il miglior modo per dare loro giustizia e impedire alla base i fenomeni di «dumping» salariale collegati al sistematico sotto-inquadramento dei lavoratori (aspetto che si traduce nei clamorosi differenziali di guadagno emersi anche nelle recenti indagini). In questo senso crediamo si debba fare un uso intelligente dei fondi resi disponibili da un programma come Interreg 3, sostenendo i progetti bilaterali – già sul tavolo – che si propongono di studiare i meccanismi di accesso delle imprese alla manodopera frontaliera (le imprese sanno «valutare» ma non vogliono riconoscere le competenze) per attuare forme di trasparenza e certificazione, accoppiate – quando serve – a offerte formative modulari e flessibili nell’accesso). È importante, perciò, che i bilaterali prevedano il riconoscimento dei titoli, ma non bisogna accontentarsi. Serve andare oltre e riconoscere le competenze acquisite sul campo dai lavoratori. Quali alleanze per sostenere questa «visione» centrata sulle azioni positive, con al centro la formazione? Sarà fondamentale – a mio giudizio – il ruolo degli organi di controllo locali e federali (N.d.r. Misure di accompagnamento e Commissioni tripartite), ma anche l’attivazione di sedi di negoziazione transnazionali (come si è verificato nel caso dei dispositivi Eurosite attivati per i cantieri AlpTransit), per consentire un governo complessivo del nuovo mercato del lavoro, in special modo nelle aree frontaliere e laddove si svilupperanno – come in Ticino – grossi investimenti e cantieri. Mi pare evidente che il sistema locale delle imprese, come il mercato del lavoro (se ben governato), potranno ricavare anche benefici diretti da una sollecita e attenta applicazione dei Bilaterali. Vi sarà senza dubbio la possibilità, importante in quanto tale, di sviluppare in modo non rituale la cooperazione transfrontaliera, a livello di scambio, circolazione delle informazioni, costruzione di organi stabili di collegamento e gestione tra gli operatori omologhi presenti sul territorio sui due versanti del confine. Su questo piano va ricordato il ruolo pionieristico svolto dalle Csi in ambito sindacale, ma non va dimenticata la cooperazione istituzionale nella gestione del mercato del lavoro (che in Ticino ha dato vita, ad esempio, allo Sportello frontalieri), e andranno valorizzati e ripresi i progetti di cooperazione avviati ormai anche in area imprenditoriale. Per gestire positivamente i Bilaterali serve – in conclusione – che siano rafforzate le politiche di concertazione bi e trilaterale a livello transfrontaliero. Pensiamo a terreni estremamente delicati e concreti sui quali tali politiche si renderanno indispensabili, sia in relazione al monitoraggio dei processi di sviluppo (come ai fattori di criticità) indotti dalla nuova mobilità del lavoro che si verrà a creare, sia nell’applicazione più generale degli accordi, che porterà all’ordine del giorno temi complessi e tipicamente negoziali come il riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche, lo sviluppo di pratiche formative a respiro transfrontaliero, e sul versante delle politiche sociali aspetti non meno delicati, come la gestione dei fondi previdenziali, che conoscerà una significativa – e ancora non del tutto chiara – evoluzione.

Pubblicato il

31.05.2002 02:30
Dora Markus
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