Ricordi di prima generazione

In questa campagna per la votazione sulla naturalizzazione degli stranieri di seconda e terza generazione, finisce che ci si dimentica della prima generazione, di quei vecchi immigrati che hanno vissuto difficoltà di adattamento ben più gravi di qualche inciampo che i “secondos” e, a maggior ragione, i loro figli possano oggi incontrare. Tuttavia, c’è un filo di tensione, anche drammatica, che unisce i tempi delle iniziative di James Schwarzenbach, e quelli precedenti, alle nevrotiche contorsioni antistranieri dell’Udc di Christoph Blocher. E chi potrebbe ricostruire questa tensione meglio di un immigrato di prima generazione che ne ha vissuto l’intero percorso? Oreste Vezzoni, pensionato che vive a Schlieren, nei pressi di Zurigo, originario della provincia di Mantova, è venuto in Svizzera quasi cinquant’anni fa, «nell’ormai lontano 1956». In Italia lavorava in proprio, ma qui è andato per otto anni in fabbrica. Poi, dopo tre anni in un padronato (consulenza sociale e previdenziale per i lavoratori), è passato funzionario sindacale alla Flmo fino al pensionamento. Negli anni Cinquanta – ricorda – l’immigrazione in Svizzera era composta da italiani (il 70 per cento) e spagnoli. Gli italiani erano quasi tutti del Nord o del Centro-Nord d’Italia, non c’era ancora l’ondata proveniente dal Sud, arrivata dal 1965 in poi. Era un’emigrazione di manodopera in buona parte qualificata, e questo, secondo Vezzoni, «ha aiutato molto nella difficile convivenza con gli svizzeri», perché la manodopera qualificata era particolarmente richiesta. Allora la società svizzera, fortemente radicata alle sue tradizioni, era più chiusa di oggi, non aveva ancora sperimentato un flusso massiccio di gente con abitudini e stili di vita diversi. Questo rendeva le relazioni tra svizzeri e immigrati estremamente difficili. «Le cose sono cambiate lentamente, con il passare degli anni e il rinnovo delle generazioni: i giovani hanno portato una mentalità nuova, la gente ha cominciato a viaggiare di più, ad uscire dai confini svizzeri, ed il confronto con altre realtà ha influito sul suo modo di pensare e di agire. I primi sintomi di una certa apertura io li ho avvertiti dopo vent’anni che ero in Svizzera, dunque a metà degli anni Settanta». Ma l’aver conosciuto da vicino una Svizzera più chiusa e tradizionalista di quella di oggi non ha facilitato l’integrazione degli immigrati di prima generazione. Secondo Vezzoni «le richieste d’integrazione avanzate dagli stranieri trovavano riscontri difficili negli svizzeri. La maggior parte degli immigrati maturava quasi una forma di rigetto: chiedevano di essere integrati, ma si rendevano conto che sarebbe stato difficile». Tuttavia, le varie iniziative antistranieri, da quelle di Schwarzenbach a quelle di Valentin Oehen, per Vezzoni sono state una conferma della lenta apertura della società svizzera. All’inizio gli svizzeri avevano accolto in buona misura (il 46 per cento) le proposte di Schwarzenbach. Da allora, attraverso le varie votazioni, «c’è stato un evidente processo di miglioramento, di maggiore accettazione degli immigrati. Schwarzenbach, con le sue iniziative, aveva risvegliato nei cittadini tensioni che probabilmente erano sopite e non venivano manifestate, costringendoli a fare i conti con esse. È stato quindi un processo obbligato di sviluppo della società, di apertura quasi forzata, perché ormai è inammissibile pensare di mantenere situazioni che erano logiche e accettate trent’anni fa». Quelle campagne erano però vissute «con molta paura» dagli stranieri. Specialmente quando l’economia si trovava in in una fase di bassa congiuntura. Era la paura di perdere il posto, di essere obbligato a rientrare in Italia dove non c’era alcuna certezza d’occupazione. Era la paura del fallimento di un progetto di vita. Come sindacalista inoltre, Vezzoni ha avuto diretta esperienza delle difficoltà di accettazione degli stranieri anche all’interno del sindacato: «C’è stato un periodo di affluenza massiccia dei lavoratori stranieri nel sindacato, perché speravano di trovarvi una copertura, un aiuto, un’assistenza. Ma questo ha fatto emergere la preoccupazione che gli stranieri potessero entrare negli organi direttivi. E se già nel sindacato c’erano queste remore, figuriamoci nella società». Oggi, però, il tema predominante nella politica degli stranieri è la naturalizzazione. Ci si chiede allora perché gli immigrati di prima generazione non abbiano cercato con più insistenza di prendere la cittadinanza svizzera.«Io non sono un nazionalista», spiega Vezzoni, «ma quando in televisione, che allora era ancora agli albori e in bianco e nero, si parlava dell’Italia, o si sentiva l’inno nazionale italiano, si risvegliava in noi qualcosa che ci faceva sentire legati alla nostra terra, alle nostre tradizioni». Quel legame sentimentale con l’Italia era uno dei motivi che impedivano il cambio di nazionalità. A meno che non prevalessero le particolari esigenze di chi, per esempio, si metteva in proprio. Ma oggi anche quel sentimento è cambiato: «Non siamo soltanto più europeisti, ma siamo più aperti al mondo intero. Venire in Svizzera, allora era il viaggio più lungo che avessi mai fatto». Quando Vezzoni venne in Svizzera era già sposato. La sua prima figlia aveva 5 anni. Era partito per seguire la moglie, che aveva già un contratto. Dovette cercarsi subito un lavoro, altrimenti per il ricongiungimento familiare ci sarebbero voluti tempi molto lunghi: 10 anni, poi ridotti a 7 e poi a 5. Quest’ultima riduzione è intervenuta proprio quando lui era qui da 5 anni, e quindi ha potuto far venire la prima figlia che aveva 10 anni. La seconda figlia invece è nata in Svizzera. «Da allora, rispetto alla cittadinanza, abbiamo vissuto in famiglia quattro condizioni diverse: la mia, quella della prima figlia nata in Italia, quella della seconda figlia nata qui, e quella della mia nipotina». Nel sindacato si rese conto che per far carriera doveva diventare svizzero: «Mi è stato proposto, ma ho rifiutato. Perché mi sembrava di tradire le mie origini. Perché era quasi un’imposizione, non una scelta. E perché c’era da pagare. Me l’imponevano, e dovevo anche pagare». La prima figlia ha fatto domanda di naturalizzazione a circa vent’anni, «perché aveva capito che per motivi professionali, quindi per convenienza e non per scelta, era meglio farsi svizzera». Non c’era ancora la naturalizzazione agevolata per i giovani: «Hanno fatto inchieste, sono venuti a casa, abbiamo dovuto nascondere la bandiera italiana che mia moglie teneva in casa, mia figlia s’è dovuta studiare la storia svizzera ed ha dovuto sostenere un esame. E poi ha dovuto pagare parecchi soldini». La seconda figlia ha invece avuto la nazionalità agevolata, pagando poco: «Ma per lei non era più un calcolo di convenienza: nata qui, aveva il ragazzo svizzero, la sua prospettiva di vita era tutta qui. Sua figlia, poi, è interamente svizzera». «Adesso il mio giudizio sulla situazione attuale è un po’ condizionato da quanto succede oggi in Italia. Viene facile paragonare l’Udc alla Lega Nord, e Blocher a Bossi. Ma se l’Italia, con un secolare passato d’emigrazione, non mostra comprensione e rispetto per chi oggi arriva da paesi più poveri e disperati, è difficile per me giudicare il comportamento dell’Udc svizzera. Dico però, in positivo, che c’è un dibattito. Una volta questo non c’era: le discussioni, la presa di conoscenza collettiva sul grado di accettazione degli stranieri e sui problemi che la loro presenza comportava, sono cominciate con le iniziative di Schwarzenbach. È così che l’opinione pubblica è stata coinvolta ed è stata chiamata a votare. Ed è iniziato un dibattito».

Pubblicato il

17.09.2004 02:00
Silvano De Pietro