Riappropriamoci del "che cosa fare"

Forse alla fine dei dibattiti scoppiano a ridere. I politici del partitone affermano che se passasse l'iniziativa popolare per proibire l'esportazione di armi si perderebbero posti di lavoro alla Pilatus di Stans, alla Mowag di Kreuzlingen, alla Rheinmetall Air Defence (ex Oerlikon) e alla Ruag. Infatti si danno da fare tutti i giorni per migliorare le condizioni dei salariati di questo paese, rendere la vita difficile alla Manpower, aumentare gli stipendi, evitare i licenziamenti e impedire il trasferimento delle imprese in Cina.
C'è un'altra notizia comica, e questa volta fa ridere noi: la US Force (l'aviazione militare statunitense) per contribuire alla lotta contro i gas serra ha annunciato di voler ridurre progressivamente la dipendenza dai combustibili fossili, ricorrendo sempre più agli agrocarburanti. È bello morire sotto le bombe sganciate da aerei che non inquinano, così come è un piacere essere colpiti dalle pallottole di qualità insuperabile fabbricate dagli operai svizzeri.
I promotori dell'iniziativa tentano di smontare le affermazioni degli avversari. Non è vero che sarebbero in pericolo 10 mila posti di lavoro: nel settore sono impiegate in tutto circa 5 mila persone, che potrebbero essere spostate senza problemi in produzioni civili. Le esportazioni di armi rappresentavano nel 2008 soltanto lo 0,1 per cento del prodotto interno lordo del nostro paese, una somma facilmente compensabile con l'aumento di altre voci del commercio estero. E poi l'argomento umanitario: le bombe a frammentazione della Ruag, oltre a causare danni materiali, hanno una particolarità: se si viene colpiti da un frammento si perde un braccio o una gamba o si rimane ciechi, secondo la teoria che invece di un morto è più utile provocare al nemico un ferito, anzi un invalido, meglio se giovane.
Il problema andrebbe però affrontato in un altro modo. Perché dovremmo difendere quei posti di lavoro? Come mai è diventato normale guadagnarsi da vivere dando la morte a qualcun altro? Sono le stesse domande che ci si dovrebbe porre riguardo alle fabbriche che producono veleni, riguardo alle miniere che inquinano i fiumi col mercurio, nel caso dell'edilizia speculativa che devasta il territorio senza soddisfare il bisogno di abitazioni, o dell'agricoltura intensiva che lascia dietro di sé il deserto. I lavoratori di questi settori sono tutelati, tanto o poco, dai sindacati. Perfino le guardie carcerarie che torturano e i militari che uccidono sono organizzati in qualcosa che somiglia a un sindacato. Non sarebbe ora di entrare in materia riguardo alla natura del lavoro che si difende? Trascurando questo aspetto abbiamo permesso che gli imprenditori si attribuissero l'immenso potere di decidere che cosa produrre.
Forse è giunto il momento di riappropriarci del che cosa fare. Dopotutto ciò appartiene al campo della morale, un campo troppo importante per essere lasciato alla retorica dell'intraprendere.

Pubblicato il

20.11.2009 13:30
Giuseppe Dunghi