Non era un fotoreporter, Christian Schiefer. Amava piuttosto fotografare i pescatori di Bissone o le contadine di Corticiasca. Eppure proprio a lui si devono le immagini più significative della caduta del fascismo in Italia, quelle dei corpi di Benito Mussolini e dell’amante Claretta Petacci appesi per i piedi a piazzale Loreto. Il giorno era il 29 aprile del 1945. Quelle foto fecero immediatamente il giro del mondo e finirono sulla prima pagina dei quotidiani americani del 1° maggio successivo. Ma pochi allora sapevano e oggi ricordano che a scattarle fu proprio quell’umile fotografo di Lugano. Che divenne reporter di guerra per pochi giorni, quasi per caso. Ma che ci ha lasciato alcune fra le più significative testimonianze fotografiche sulla seconda guerra mondiale in Ticino. Ed è proprio “La guerra vista dal Ticino” il titolo di una bella mostra in corso fino al 31 luglio a Palazzo Franscini a Bellinzona, sede dell’Archivio di Stato e della Biblioteca cantonale. Vi si ripercorrono gli anni dal ’39 al ’45 così come li immortalò Schiefer in Ticino. Si tratta di una scelta di 102 immagini (tante quante l’età raggiunta dal fotografo, che morì nel 1998) selezionate dal giornalista Antonio Mariotti e dal regista cinematografico Villi Hermann e proposte in un allestimento intrigante e per certi versi spettacolare. Il fondo Schiefer, depositato all’Archivio di Stato, comprende circa 9’300 immagini, ed un forte impulso alla sua valorizzazione è venuto proprio da Hermann, che in queste settimane sta terminando, dopo un lavoro di tre anni, un documentario dedicato a Schiefer. Dei sei anni di guerra la mostra propone immagini di vita quotidiana, ma decide di concentrarsi in particolare su due periodi: quello del grande afflusso di rifugiati in Svizzera a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 fra gli americani e il governo Badoglio e quello della Liberazione, dal 27 al 29 aprile 1945, vissuti in viaggio (assai avventuroso) fra Chiasso, Como e piazzale Loreto. Il primo periodo Schiefer lo fotografò come soldato del “Servizio stampa e radio” dell’esercito, il secondo come inviato della “Schweizer Illustrierte”. Ma nella mostra bellinzonese c’è un terzo nucleo tematico non meno significativo, quello costituito dai ritratti in formato passaporto da inserire nel “libretto per rifugiati” dei profughi ammessi in Svizzera: si tratta di una sorta di galleria dei salvati che si contrappone a quella di coloro che, senza più un volto, furono respinti alla frontiera svizzera per trovare molto spesso la morte in un campo di concentramento. La mostra di Bellinzona è accompagnata da un catalogo (edito da Giampiero Casagrande) comprendente testi di Alberto Nessi e Adriano Bazzocco, oltre che di Mariotti e Hermann. Domenica al museo di Lottigna verrà invece inaugurata un’altra mostra su Schiefer, questa forse più rappresentativa dell’opera complessiva del fotografo: essa è dedicata esclusivamente alla Val di Blenio, ai paesaggi come alle case, alle genti come ai lavori quotidiani, e comprende immagini realizzate fra il 1920 e il 1950. Di seguito, per gentile concessione dell’autore, proponiamo il contributo di Villi Hermann al catalogo della mostra bellinzonese. Il regista in queste settimane sta ultimando il suo nuovo lungometraggio, “Mussolini, Churchill e cartoline”, dedicato proprio al fotografo luganese. È un testo che a partire dalle immagini realizzate da Schiefer ai rifugiati giunti alla frontiera sud dà corpo al dramma di quelli che furono respinti dalla Svizzera, come fu il caso del torinese Leonardo Debenedetti: che ad Auschwitz conobbe Primo Levi. -hgf- Ho sempre creato i film secondo le mie esigenze personali e la mia coscienza. Non ho mai realizzato un film di ordinazione, o perché era opportuno farlo, o perché il soggetto era alla moda. Ho scoperto il fotoreporter Christian Schiefer durante le mie ricerche per il videofilm “Luigi Einaudi. Diario dell’esilio svizzero”. Le sue fotografie e la sua vita semplice e modesta mi parlavano, mi toccavano. Schiefer non ha mai fatto una mostra, non ha mai viaggiato, non si è mai messo in primo piano, non ha mai cercato temi o soggetti esotici come tanti altri fotografi dell’epoca. È rimasto un testimone del suo territorio, che non era suo realmente, bensì adottivo. Le sue fotografie documentano il suo periodo da fotoreporter, negli anni ‘30-’50. Schiefer si reca nelle valli (con particolare emozione ho scoperto che ha immortalato anche la mia casa materna nel Malcantone), fotografa i cortei, le processioni, le fiere, ritrae i politici locali e gli artisti, e aveva un flair per ciclismo e vela. Fotografava i morti in casa, i matrimoni e le “vedute del Ticino”, ma anche la guerra, non quella lontana: ma la guerra vicina. Questa era la vita normale di un fotografo della regione. Mi hanno colpito i circa 400 ritratti di rifugiati italiani, per la maggior parte ebrei, fuggiti in Svizzera dopo l’8 settembre 1943, attraverso la ramina nel Mendrisiotto; in Italia i cittadini ebrei sono minacciati, vivono già in semiclandestinità, senza diritti e privati addirittura delle loro biciclette. Dopo il mese di settembre, le camicie nere e le Ss cominciano ad arrestare tutti i cittadini «di razza non ariana», come si usava dire nella follia di quel periodo, sotto la dittatura mussoliniana. Questi ritratti, scattati da Christian Schiefer all’Hotel Majestic e all’Hotel Ritschard di Lugano-Paradiso e che in parte servivano per il “libretto di rifugiato”, mi hanno intrigato. Erano di una gran semplicità, leggermente inquadrati di sbilenco, e tutti i rifugiati guardavano l’obiettivo, fissavano il fotoreporter. Queste fotografie hanno un grande valore storico. Si parla spesso dei rifugiati in maniera storica, cartacea, distaccata, quasi astratta. S’intervistano i rifugiati dell’epoca, ma sono tutti invecchiati di sessant’anni e la loro memoria è ormai sfocata. Vi sono poche foto di quei rifugiati, con i loro vestiti, il loro sguardo, i loro gesti, il loro aspetto dignitoso, ma negli scatti di Schiefer vi sono centinaia di donne, bambini, uomini anziani, padri di famiglia, studenti. In una lettera del Governo del 1943, indirizzata alla redazione per la quale Schiefer fece un reportage sui rifugiati, si legge: «dass namentlich (sottolineato) Bilder über die Flucht von Militär- und Zivilpersonen aus dem Ausland in die Schweiz nicht gestattet sind», in Svizzera non si poteva né voleva far vedere i rifugiati provenienti dall’estero. Ecco dunque che queste fotografie assumono un valore straordinario, diventano le cosiddette “verbotenen Bilder” di cui parla il rapporto Bergier, sono testimonianze soppresse, rimosse, archiviate e in parte nascoste. Studiando i ritratti dei tantissimi rifugiati nel Mendrisiotto, mi sono venuti in mente gli assenti, le persone respinte alla frontiera. Coloro che i fascisti arrestavano dopo che venivano cacciati dai nostri funzionari e soldati. La famiglia Debenedetti parte da Torino. Vive già seminascosta ad Asti, poi arriva in treno nel Comasco e si fa portare dai contrabbandieri, dietro pagamento, a Lanzo d’Intelvi; entra a Caprino, in Svizzera. I genitori sono ammessi, poiché, come si diceva, sono vecchi. Anche la figlia è ammessa, con il marito e tre bambini; ma Jolanda, l’altra figlia, è respinta con il marito Leonardo e i due sono riportati alla ramina con altre sedici persone. La suocera di Leonardo, una donna fragile di cui Schiefer fece un ritratto, muore poco dopo in un ospedale in Ticino e Jolanda e Leonardo Debenedetti vengono deportati ad Auschwitz. Purtroppo non abbiamo nessuna fotografia che li ritrae nel breve lasso di tempo in cui cercarono riparo in Svizzera. Leonardo Debenedetti viene descritto da suo amico torinese: «...non era bello, era di una bruttezza affascinante, di cui era allegramente consapevole, e che sfruttava come un attore comico sfrutterebbe una maschera. Aveva un gran naso storto, grosse sopracciglia bionde a cespuglio, e fra l’uno e le altre due occhi luminosi, celesti, mai melanconici, quasi infantili». Sua moglie Jolanda viene subito assassinata ad Auschwitz, Leonardo Debenedetti torna, è compagno di viaggio di Primo Levi, in un lungo esodo «comico e tragico» descritto in “La tregua”. Levi scrive: «avevo anche altre incombenze: aiutare Leonardo in ambulatorio, naturalmente; e aiutare Leonardo nel controllo quotidiano dei pidocchi. Quest’ultimo servizio era necessario in quei paesi e in quei tempi, in cui il tifo petecchiale serpeggiava endemico e mortale». Ai nostri funzionari Leonardo Debenedetti dichiara di essere medico; Beniamino Debenedetti (il padre) firma il verbale d’interrogatorio menzionando che Leonardo e sua moglie furono respinti: «Léonard refoulé de la frontière avec sa femme. C’est lui qui s’était mis d’accord avec un guide qui l’a conduit en moins de demi-heure à la frontière qu’il a passée sous la protection métallique». E dichiara che è stato Leonardo ad organizzare tutto con i contrabbandieri. In un’intervista, l’ottantenne medico condotto Leonardo Debenedetti diceva: «Gli svizzeri erano stati molto cattivi, erano stati molto cattivi; io mi sono trovato in questa particolare, tremenda situazione: nella notte – io avevo con me mia madre che, poverina, non stava bene, soffriva di disturbi arteriosclerotici – e nella notte che abbiamo trascorso lì mia madre ha avuto una trombosi». Scrive ancora Primo Levi, di passaggio in un campo russo, durante il suo lungo rientro: «Fra le cose che avevo imparato in Auschwitz, una delle più importanti era che bisogna sempre evitare di esser “qualunque”. Tutte le vie sono chiuse a chi appare inutile, tutte sono aperte a chi esercita una funzione, anche la più insulsa. Perciò, dopo essermi consigliato con Leonardo, mi presentai a Marja, e proposi i miei servizi come farmacista-poliglotta». Purtroppo ai funzionari di Auschwitz non ha fatto impressione la professione di Leonardo Debenedetti, – ha lavorato con picco e pala nel fango dei lager –, come non ha fatto impressione la professione dichiarata da Leonardo ai funzionari svizzeri: fuori. Leonardo Debenedetti dice che se avesse saputo della selezione fra bambini, anziani e malati in Svizzera, avrebbe anche potuto inventarsi una malattia, visto che le conosceva tutte. Sua madre durante la fuga aveva avuto una trombosi, allora il figlio segnalò il caso ai funzionari svizzeri, e loro permisero di farla visitare da un medico. «Già è vero, è proprio una trombosi» e il medico la fece ricoverare in un ospedale. Leonardo vide allora apparire un filo di speranza e si offerse di assistere la madre nell’ospedale svizzero, dato che era medico e che conosceva bene la malattia della madre. No, la madre sarebbe stata curata benissimo dagli svizzeri, «sarà curata benissimo anche senza di voi» e Leonardo dovette ritornare in Italia, «dovete partire e partirete», ripeteva il funzionario. Il ritorno era in realtà un vagone di bestiame per la Polonia. «Prima di partire dall’Italia avevo avuto dei contatti con degli Jugoslavi, i quali erano perfettamente al corrente di cosa erano i campi di concentramento in Germania e me li avevano descritti», racconta Leonardo Debenedetti. Nel 1983, alla morte dell’antifascista Leonardo Debenedetti, il suo amico Primo Levi ricordava in un articolo apparso su La Stampa di Torino: «Era ebreo, e per fuggire alla cattura da parte dei tedeschi, nell’autunno di quell’anno aveva tentato di sconfinare in Svizzera, insieme con un grosso nucleo di parenti. Avevano tutti superato il confine, ma le guardie svizzere erano state inflessibili: avevano accettato solo i vecchi, i bambini e i loro genitori; tutti gli altri erano stati riaccompagnati alla frontiera italiana: di fatto, nelle mani dei fascisti e dei tedeschi. Ci siamo conosciuti nel campo di transito italiano di Fossoli, siamo stati deportati insieme, e da allora non ci siamo più lasciati fino al ritorno in Italia, nell’ottobre del 1945. All’ingresso nel Lager, sua moglie, che era gentile, indifesa e pronta a difendere gli altri come lui, era stata immediatamente uccisa. Lui aveva dichiarato la sua qualità di medico, ma non conosceva il tedesco, e perciò aveva seguito il destino comune: faticare nel fango e nella neve, spingere vagoni, impalare carbone, terra e ghiaia. Era un lavoro massacrante per tutti, mortale per lui fisicamente debole, poco allenato e non più giovane». Leggendo queste righe di Primo Levi – che intitola il ricordo del suo amico “Ricordo di un uomo buono” – mi vengono i brividi, se penso che dei funzionari hanno deciso del destino di Leonardo Debenedetti e di sua moglie, come magari di tanti altri rifugiati, nascosti tra le pieghe della nostra storia. Ogni persona ritratta dal fotografo ha una storia, magari non sempre visibile a prima vista, ma che viene alla luce scavando nelle crepe della memoria, dove si scoprono gli avvenimenti della nostra regione inseriti in un contesto europeo, la sofferenza altrui. Il mio film “Mussolini, Churchill e cartoline” è semplicemente uno scavo che tenta di recuperare alcune di queste storie, regalateci dallo schietto obiettivo del fotoreporter di Paradiso Christian Schiefer. *) regista cinematografico

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06.06.03

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