Se si dovesse descrivere con una frase che cosa direbbe? Non sarei capace di descrivermi con una frase. E forse questa è la frase... Che cosa è veramente la produzione intellettuale: lavoro solitario, di genio, di scuola di bottega? M’interessano di più la prima e l’ultima di queste definizioni: il lavoro solitario e quello di bottega. Quello di genio può darsi che esista, ma è imbarazzante da mettere in campo. Quello di scuola certamente esiste, ma credo soltanto in circostanze particolari, in certi ambiti. Il lavoro solitario c’è naturalmente, però c’è anche il lavoro di bottega, se bottega può essere intesa come la bottega artigianale, e non nel significato deteriore del termine. C’è un lavoro molto materiale, concreto, perché la produzione intellettuale, almeno quella che intendo io e che cerco di praticare, si basa su una materia, quella delle parole. Allora, secondo me, il lavoro intellettuale è lavoro sulle parole e su tutto ciò che nelle parole si deposita. Credo che con questa definizione si possano facilmente intuire i rapporti tra i vari ambiti del lavoro intellettuale, cioè tra la riflessione politica, filosofica, letteraria, artistica e poetica e persino quella comunicativo-giornalistica. Ciascuna delle quali punta ad un aspetto particolare della lingua, della comunicazione o dell’espressione, ma tutte hanno o dovrebbero avere in comune, pur se in modo diverso e con significati diversi, questa riflessione sulla parola e sulle sue potenzialità. Qual è il ruolo dell’intellettuale? Non è più quello di una volta, se, come studiamo sui libri, l’intellettuale ha avuto o ha creduto di avere il ruolo pedagogico di formatore della coscienza civile delle masse. Non è più sicuramente questo, e non lo rimpiango poi mica tanto... però non credo neppure che non sia più «nessun ruolo» come qualcuno pretende, cioè che, è ancora avvenuto recentemente, mi pare in Italia, abbia ragione chi invita tutti coloro che si occupano di parole a starsene buoni e zitti e a non rompere le scatole... come quei grandi cartelli sull’autostrada «lavoriamo per voi». Ecco, ogni tanto si respira quest’aria, la sensazione che, chi «lavora per noi», cioè chi prende le decisioni a livello politico-economico, non abbia più voglia di sentire queste inutili fregnacce degli intellettuali. C’è un problema visibile, penso in quasi ogni luogo d’Europa, certamente in Ticino, di comunicazione, d’interazione e d’ascolto da parte della classe politico-economica nei confronti degli eventuali interventi intellettuali. Mi pare che negli ultimi dieci anni questa capacità d’ascolto si sia ridotta notevolmente e sia molto vicina al grado zero. Voglio dire che gli intellettuali possono ancora esercitare il loro diritto di parola, ma questo diritto di parola sostanzialmente cade regolarmente nel vuoto totale e pneumatico. Se l’intellettuale è colui che lavora con le parole, io credo che abbia il dovere di usare quel po’ di competenza linguistica e concettuale che ha, per aiutare tutti a fare chiarezza, quando si tratta di discutere, di ragionare e di prendere delle decisioni. Mi pare che sia questo, o dovrebbe essere questo, il ruolo dell’intellettuale. Ci pensavo proprio in questi giorni, leggendo i giornali o ascoltando le notizie... talvolta gravissime e inquietanti, sulle quali tuttavia la nostra coscienza critica è sempre più anestetizzata. Basti pensare all’arresto dei poliziotti a Napoli, o al piano d’invasione Usa dell’Iraq apparso sul New York Times, o alle esternazioni di Bignasca su Le Pen. Mi pare che sia necessario riflettere sulle parole, perché altrimenti si aprono scenari di barbarie. Esiste un legame tra intellettuali e potere? Sì, certo che esiste o dovrebbe esistere. Mi pare che oggi invece esista soltanto la forma cortigiana, cioè il lavoro intellettuale completamente asservito a una qualsiasi forma di potere e trasformato quindi in produzione di soprammobili intellettuali che legittimano certe operazioni. Invece, quando il lavoro intellettuale cerca di esercitare il suo potenziale critico nei confronti del potere, mi pare che questo rapporto sia estremamente debole e minacciato. Forse perché il potere si sente probabilmente troppo forte e perché le forme con cui viene esercitato, e sto pensando alle decisioni politiche, mi pare che tendano sempre più a rifuggire dalla complessità dei problemi, a proporre delle ricette apparentemente lineari, spesso demagogiche e misurabili sul breve periodo, che non tengono conto né della complessità del passato, né di quella del futuro. Sono paganti in termini di quello che i politici chiamerebbero «elettorato», ma che più in generale si può chiamare «audience». Credo che questo sia il metro di oggi. La cultura conta nelle decisioni politiche? Ho già risposto... No. L’etica dovrebbe essere in funzione della politica o la politica in funzione dell’etica? Credo che tra i due concetti di etica e di politica sia difficile stabilire a tutti i costi e in assoluto una priorità. Credo però che ci dovrebbe essere un dialogo intenso e una collaborazione. C’è stata un’epoca in cui la risposta più ovvia a questa domanda sarebbe stata: «non c’è dubbio la politica domina e informa di se tutte le attività umane e dunque anche l’etica». Oggi è più arduo rispondere in questo modo e sarei tentato di dire «certo, l’etica deve, dovrebbe subordinare a sé la politica». Ma credo che anche questa sarebbe una risposta, come forse quella che avrei dato anni fa, senza un gran valore. Penso piuttosto che sia importante questa collaborazione, questo dialogo continuo. E di nuovo, un dialogo che spesso sembra latente o indebolito. Il silenzio degli intellettuali, ammesso che esista, è anche quello degli intellettuali organici del potere economico? Ammesso che esista il silenzio e/o ammesso che esistano gli intellettuali. Spesso se ne parla di questo silenzio degli intellettuali e in parte è vero che è meno presente la figura dell’intellettuale sulla scena del dibattito politico e culturale contemporaneo. Però questo dipende in parte dal fatto che le possibilità concrete di esercitare la propria capacità di dibattito si sono strette e diminuite. La possibilità di scrivere sui giornali o di far sentire la propria voce è probabilmente inferiore a quella che è stata in passato. E anche se qualche volta gli intellettuali intervengono, il silenzio non muta, perché la loro voce cade sostanzialmente nel vuoto. Riguardo agli intellettuali organici del potere economico, bisogna capire a che cosa ci si riferisce. Su scala mondiale mi pare soprattutto la figura dell’economista o dei teorici dell’economia, i quali non tacciono evidentemente, anzi in questi decenni sono spesso intervenuti, disegnando scenari e legittimando scelte. Però ci sono tutta una serie di altre forme di attività intellettuale che può essere funzionale a un certo potere politico. Direi tutte quelle che sembrano proporre al ceto politico, ciò che vuole sentirsi proporre di preferenza, cioè delle griglie, ricette o chiavi apparentemente semplici per decifrare la realtà e passare immediatamente alla «fase operativa». Mentre, invece, la voce dell’intellettuale tende a complicare i problemi, a fare cioè quello che dovrebbe essere, questo sì, uno dei compiti di chiunque faccia l’intellettuale: rispondere in maniera complessa alle domande semplici, e non cedere al buon senso comune. Quando i politici si trovano di fronte a questo tipo di proposta intellettuale più facilmente, credo, tendono ad ignorarla, perché questo complicherebbe notevolmente il loro lavoro e le loro responsabilità. Quando di parla di globalizzazione, si parla di qualcosa di completamente nuovo rispetto alla tradizione? Credo di sì, è un fenomeno nuovo, anche se assomiglia a numerosi altri fenomeni già presenti almeno negli ultimi due secoli. Di nuovo ci sono le dimensioni e l’aspetto totalizzante, che sembra davvero godere di una forza di propulsione e di diffusione forse senza pari e che sembra essere in grado di sconvolgere completamente il mondo cui eravamo abituati. Le somiglianze con altri fenomeni ci sono, laddove una forte cultura nel senso ampio del termine ha per così dire colonizzato o imposto dei modelli al resto del mondo. Certo, è già avvenuto, ma forse mai con queste dimensioni e con questi mezzi e orizzonti nuovi, offerti tra le altre cose dalla tecnologia informatica. Internet come strumento o come illusione? Non sono abbastanza esperto di internet per poter dare una risposta ragionevole... Certo, se uno legge ad esempio il lungo capitolo dell’ultimo libro di Marco Ravelli Oltre il Novecento, si vede bene come internet e in generale questo mondo informatico porti dentro di sé una contraddizione e possa essere contemporaneamente uno strumento di libertà, di contatto, di comunicazione e d’altro canto lo strumento più pervasivo della colonizzazione economica di ciascun attimo della nostra vita. Credo che sia impossibile dire come si evolveranno le cose, e credo che non si arriverà ad una situazione precisa. Immagino che dentro internet sia possibile e stia già avvenendo una sorta di lotta per la conquista di spazi di libertà, ed è altrettanto chiaro che la parte più massicciamente visibile di internet sia l’altra. Chi detiene lo strumento che forma l’opinione? Mi pare che basti guardare all’Italia per rispondere. Lo detiene chi possiede quelli che una volta si chiamavano «mezzi di produzione» e adesso sono «i mezzi d’informazione». Credo che il più potente rimanga la televisione per il momento, dunque chi possiede le televisioni. E generalmente chi le possiede, ha poi anche i giornali e buona parte delle case editrici, quindi i mezzi per formare l’opinione. C’è poco da fare...

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21.06.02

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