Italia

Non dev’essere confortante, settantuno anni dopo aver liberato l’Italia dal nazifascismo, perdere il diritto di difendere la Costituzione e di esprimere il proprio punto di vista sul nuovo modello istituzionale sottoposto al voto della popolazione italiana dopo l’approvazione del Parlamento. A mettere il bavaglio ai partigiani ancora in vita e ai nuovi partigiani dell’Anpi, l’associazione che giustamente ha aperto porte e finestre alle nuove generazioni, non sono i nuovi fascisti, non è la destra italiana, bensì il Pd, il partito nato per mutazioni genetiche successive dalla tradizione comunista e democratica italiana. Il capo di questo ogm politico, Matteo Renzi, per la prima volta nella storia delle feste dell’Unità, ha imposto di chiudere le porte all’Anpi, salvo che accetti di non esporre le proprie idee su Costituzione e referendum. La colpa dei partigiani è di aver espresso un giudizio nettamente negativo sulle riforme costituzionali ed elettorali del governo, e di chiedere conseguentemente ai cittadini di votare no al referendum che si terrà in autunno.


La ministra Boschi arriva a dire che ci sono partigiani buoni (i pochissimi che si sono espressi per il Sì) e partigiani cattivi (tutti gli altri). Renzi ha minacciato per poi negare, per poi confermare, per poi negare… che una vittoria del No provocherebbe la caduta del suo governo. I trombettieri di regime – in testa la ex scalfariana Repubblica – gridano che nel caso sciagurato di vittoria del No si determinerebbe un cataclisma tale che Usa e Ue abbandonerebbero l’Italia al suo destino.


La (contro)riforma costituzionale che modifica decine di articoli della Carta nata dalla Resistenza – insieme con il nuovo sistema elettorale (l’Italicum) – è stata approvata da una risicatissima maggioranza parlamentare con l’intento dichiarato di garantire governabilità e rapidità nelle decisioni, a costo di sacrificare pluralismo, democrazia e rappresentanza. Si prefigura un parlamento di nominati ancor peggio di quello odierno, con un Senato ridotto a un terzo, non elettivo, praticamente inutile salvo garantire ai cento nominati dal ceto politico la stessa immunità dei deputati il cui numero esorbitante non viene invece ridotto. Si aumentano i poteri dell’esecutivo, cioè del governo che oggi è in mano a Renzi e domani chissà. La ciliegina sulla torta di questo impianto autoritario è l’Italicum, peggio della ”Legge truffa” democristiana degli anni Cinquanta bocciata dagli italiani. A garanzia della governabilità viene introdotto un abnorme premio di maggioranza che, in un paese dove l’elettorato è diviso non più in due ma in tre blocchi (centrosinistra, destre e Movimento 5 stelle), consentirebbe al partito più votato magari con il 25% dei consensi di ottenere più del 50% dei seggi. Se a questo si aggiunge che ormai in Italia diserta le urne un cittadino su due, si può immaginare un futuro post-democratico in cui una tanto inconsistente quanto blindata minoranza sarebbe in grado di imporre la sua volontà su tutti. Sarebbe una svolta in piena consonanza con i diktat e i disastri dell’economia liberista: se l’1% della popolazione mondiale ha una ricchezza superiore a quella detenuta dal restante 99%, se un amministratore delegato può guadagnare fino a duemila volte più di un suo sottoposto, perché meravigliarsi del castello istituzionale renziano che consegna a una ristretta casta il futuro di tutti noi?


A livello puramente politico, a battersi per il No al referendum ci sono, con più o meno convinzione, le destre non ancora entrate nella maggioranza di governo. C’è Sinistra italiana, cioè la pattuglia costituita dai parlamentari di Sel e dai fuoriusciti dal Pd, ma c’è anche la minoranza del partito di Renzi, o almeno una parte di essa che chiede in cambio di un sostegno alla riforma una modifica in senso democratico dell’Italicum. Nella società a fare campagna per il No, accanto all’Anpi, ci sono i principali movimenti e una parte del sindacato: in testa la Fiom e, con qualche distinguo, l’intera Cgil. Comitati per il No stanno nascendo in tutte le città italiane, guidati dai migliori giuristi e intellettuali che abbiamo su piazza. Renzi e i suoi ascari non stanno lasciando nulla di intentato pur di superare lo scoglio referendario: la Rai è stata ripulita da ogni possibile voce critica e in tutti i posti di comando della burocrazia statale e nelle aziende pubbliche la normalizzazione ha raggiunto livelli mai toccati. In questo clima da partito della nazione, persino il nuovo presidente di Confindustria sembra una guardia del corpo del nuovo Uomo della Provvidenza.


Il perdurare di una crisi economica pesante e le ricette liberiste del governo approfondiscono il fossato che divide politica e cittadinanza. La domanda è se la caduta di consenso del renzismo, con una insofferenza popolare priva di rappresentanza e dunque lasciata nelle mani del populismo grillino, possa essere neutralizzata dall’occupazione di tutti i centri di potere e dal ricatto dell’instabilità (dopo di me il diluvio) nel caso di una sconfitta di Renzi. Oltre che di Europa a Ventotene, al vertice a tre nel luogo simbolo della scommessa di Altiero Spinelli e dei padri fondatori del progetto di unità del Vecchio Continente, tra Renzi, Hollande e Merkel si è parlato di futuro di un’Italia che ha le stesse difficoltà dei paesi poveri – Spagna, Portogallo, Grecia – ma finge di essere un membro d’onore al tavolo dei grandi. Quando a chiedere flessibilità sui conti pubblici era Atene, Roma si girava dall’altra parte, succube della filosofia tedesca. Questo bisognerebbe ricordarselo.

Pubblicato il 

24.08.16
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