La Mann+Hummel, impresa di componentistica auto, ha deciso in questi giorni di riunire in un solo sito, a Laval, tutta la sua produzione francese e di concentrare qui anche la ricerca e sviluppo e i rapporti con i fornitori, per evitare una delocalizzazione consideratta inevitabile se il rendimento del sito francese non aumenta. È un esempio, tra i molti, della sfida che pone l’ondata di delocalizzazioni verso paesi a bassi salari, che colpisce anche l’industria automobilistica e quella che ne dipende. La Cgt ha presentato lunedì 7 novembre il proprio «progetto industriale» per Renault, che permetterebbe di rilanciare le vendite ed evitare il rischio di una crisi grave. Il sindacato è estremamente preoccupato, perché Renault perde terreno – ha lasciato a Volkswagen il posto di prima marca europea – e prevede, in prospettiva, la chiusura di qualche fabbrica, se non ci sarà una svolta. «Il gruppo potrebbe realizzare su General Motors la stessa operazione che ha fatto su Nissan nel ’99 – dice la Cgt – ma allo stesso tempo non investe abbastanza nelle sue fabbriche in Europa. Se analizziamo con freddezza la situazione, ci sono due o tre Volvorde in potenza», cioè due o tre fabbriche potrebbero chiudere, come fu il caso dell’impianto belga nel ’97, che diede vita a un potente movimento europeo di protesta in tutte le fabbriche Renault. Oggi alla Renault, secondo la Cgt, «tutto riposa sulla Logan, che nel 2010 sarà in fin di vita». La Logan è l’automobile a basso prezzo, «la macchina a 5mila euro» fabbricata in Romania dalla filiale Dacia, concepita per i mercati più poveri dell’est o del terzo mondo – nell’est europeo Dacia potrebbe diventare la fabbrica leader, mentre il mercato è oggi dominato da Skoda – ma che comincia a suscitare interesse anche tra i consumatori più ricchi dell’Europa occidentale (dove verrà commercializzata a partire dal prossimo giugno, a cominciare dalla Francia e dalla Germania, a un prezzo però superiore ai 5mila euro). I sindacati temono che Renault punti sui siti di produzione all’est, meno cari, abbandonando progressivamente gli stabilimenti francesi, dove la produttività aumenta poco. Fanno il confronto con Peugeot-Citroen : «Psa guadagna meno soldi per veicolo di Renault, 330 euro nel 2004, contro 800 – dice la Cgt – ma produce di più. Questo circolo virtuoso ha permesso a Psa di aumentare le vendite del 51 per cento e di creare 10mila posti di lavoro in Francia e, parallelamente, di aumentare la produttività» (che è di 24,5 veicoli per dipendente, contro 20,2 per Renault). Ma, per il momento, Renault resta una società eminentemente francese, malgrado la Logan e l’internazionalizzazione del gruppo: anche se il mercato francese nel 2004 non rappresentava più che il 28 per cento delle vendite complessive della marca, il 53 per cento dei veicoli Renault sono ancora fabbricati in Francia (1,31 milioni di su 2,47). In Francia sono impiegate 75 mila 700 persone, cioè il 58 per cento del totale dei dipendenti Renault. Ma oggi questo assetto potrebbe subire un terremoto. È quello che temono i sindacati, che guardano con diffidenza il nuovo presidente-amministratore delegato, Carlos Ghosn, il successore di Louis Schweitzer. Non è detto che lo «stile Ghosn», che ha funzionato – almeno dal punto di vista degli utili – alla Nissan (nel ’99 era stato nominato da Renault alla testa della casa automobilista giapponese, che era in rosso, e in due anni ha ritrovato la strada degli utili), funzioni alla Renault. L’impresa francese teme di perdere l’anima «gallica» e la nazionalità di origine, Carlos Ghosn è presentato come «un Cesare che disprezza il villaggio di Astérix». Anche Psa, in realtà, ha delocalizzato: dopo aver scelto in un primo tempo la Polonia, ha poi optato per la Slovacchia (in seguito alla polemica tra Parigi e Varsavia sull’acquisto da parte della Polonia di aerei statunitensi invece che europei) dove dovrebbero venire creati 3mila posti di lavoro in un sito di assemblaggio per piccoli modelli. Ma dal mondo della produzione di auto arrivano notizie contraddittorie. Mentre Renault e Psa investono nei paesi a bassi salari, per avvicinare la produzione ai nuovi mercati, la Toyota, invece, ha scelto la Francia per impiantare la sua fabbrica in Europa. Il terzo costruttore automobilstico mondiale aveva ricevuto 70 offerte in Europa e alla fine nel 2001 ha scelto Valenciennes, nel Nord della Francia. Un investimento allora di 3,5 miliardi di franchi francesi, che ha permesso la creazione di 3mila posti di lavoro diretti (e di 6mila indiretti) in una regione che rischiava di trasformarsi in deserto industriale. Una scelta che difende: né le 35 ore, né una fiscalità considerata troppo alta, né un costo elevato della manodopera hanno scoraggiato i giapponesi, per i quali tutti questi fattori «negativi» non sono altro che «una puntura di vespa sulla pelle di un elefante che avanza». Non sono neppure stati gli “aiuti” concessi dalla Francia al costruttore (30 milioni di franchi francesi) a convincere Toyota ad aprire la fabbrica a Valenciennes. La Gran Bretagna, per esempio, è stata scartata da Toyota perché ha rifiutato di entrare nell’euro. In più, Toyota ha eliminato anche la Polonia e l’Irlanda, che si erano offerte di accogliere il sito, perché non vuole essere considerato un predatore, che approfitta di condizioni più favorevoli per quanto riguarda i costi di manodopera. La Francia, dicono a Toyota, è stata scelta perché è il più grande mercato europeo per le auto di piccole dimensioni e perché, soprattutto, dispone di una rete di infrastrutture efficienti – la regione Nord-Pas de Calais è vicina al Belgio, alla Gran Bretagna, non troppo lontana dalla Germania e dall’Olanda, è ben servita per i trasporti – e di una manodopera competente. Toyota, malgrado una legislazione sul lavoro che molti accusano di essere rigida, ha potuto adottare a Valenciennes i suoi metodi di lavoro, più flessibili, che da vent’anni in realtà sono imitati anche dagli altri costruttori.

Pubblicato il 

02.12.05

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