Razzisti per dovere

Se per molti immigrati italiani in Svizzera il divieto di accesso a bar e ristoranti è solo il ricordo di un tempo lontano, per altre categorie di stranieri che vivono nel nostro paese questa forma di esclusione è ancora una realtà.

Si moltiplicano infatti i casi di discriminazione razziale all'entrata di bar e discoteche: con la scusa di prevenire atti di violenza, i gerenti ricorrono sempre più sovente allo strumento del divieto d'accesso ai loro locali per determinati gruppi di cittadini stranieri o di origine straniera. Giovani provenienti dai Balcani o dalla Turchia e africani di colore sono le principali vittime di «un fenomeno che si manifesta in tutte le regioni linguistiche del paese, tanto nelle aree rurali quanto in quelle urbane», rileva la Commissione federale contro il razzismo (Cfr) denunciando pure «carenze nel perseguimento penale di questi episodi».
Episodi che il più delle volte hanno come protagonisti gli addetti alla sicurezza, i quali però spesso agiscono sì in violazione della legge (la discriminazione razziale è un reato punito dall'articolo 261bis del Codice penale svizzero), ma per "dovere professionale", in quanto esecutori di un ordine impartito loro dal proprietario o dal gestore de locale. Una situazione che oltre a rendere difficile le indagini agli inquirenti, suscita problemi alle imprese di sicurezza privata. Securitas (la più grande del ramo), anche per il moltiplicarsi di questo genere di direttive ai suoi "buttafuori", ha addirittura deciso di ritirarsi da questo settore di attività, come ci conferma il Segretario generale Reto Casutt: «Una decina di anni fa accettammo alcuni mandati, ma nel frattempo l'ambiente delle discoteche e dei club è molto cambiato. In peggio purtroppo. Al problema generale degli episodi di violenza (sempre più frequenti) si è aggiunto quello di queste direttive discriminatorie impartite ai nostri agenti, che sono molto dubbie dal punto di vista legale. Securitas ha così deciso di ritirarsi progressivamente da questo tipo di attività».
Securitas conferma dunque l'esistenza del problema, ma allo stato attuale non si dispone né di una casistica completa né di studi scientifici specifici, il che rende difficile dare una dimensione ad un fenomeno che la stessa Cfr non riesce a monitorare: «Sono ancora troppo pochi in Svizzera i Centri di consulenza in materia di razzismo e dunque le informazioni risultano frammentarie», spiega la direttrice Doris Angst.
Una cosa però è certa: dall'inizio del 2003 sono sempre più numerose le persone e le organizzazioni che denunciano alla Cfr situazioni di discriminazione razziale attraverso la negazione di un servizio nell'ambito delle attività del tempo libero. Di solito è il comportamento inadeguato o rissoso di singole persone a portare all'esclusione di interi gruppi.
Le cronache dei media riferiscono di molte storie simili tra loro: un musicista di colore respinto all'entrata di una birreria del centro di Zurigo che non ammette «arabi», un locale alla moda di Lucerna rifiuta l'accesso a «stranieri disoccupati», una delle principali discoteche di Zurigo bandisce i cittadini dell'Etiopia, un pub nel celebre quartiere Niederdorf di Zurigo nega l'entrata ai musulmani; una discoteca nei Grigioni rifiuta «neri e cittadini della ex jugoslavia», un locale di Egerkingen (Soletta) rifiuta «fino a nuovo avviso» l'entrata a «cittadini dei Balcani», un caffè di Berna non serve «stranieri con permesso B», un pub di San Gallo non ne vuole sapere di «albanesi, jugoslavi e neri».
Gli esempi insomma non mancano e giungono «da ogni parte della Svizzera e riguardano tutti i generi di esercizi pubblici, compresi eleganti locali della "Zurigo bene"», precisa Doris Angst, denunciando d'altro canto e senza mezzi termini «un certo lassismo della giustizia» nell'applicazione della legge.
Poche, anzi, pochissime sono in effetti le inchieste (una decina dal 1995 a oggi) per questa forma di discriminazione razziale. E ancora meno sono le condanne. Il capoverso 5 dell'articolo 261 bis del Codice penale, che prevede una pena detentiva fino a tre anni per «chiunque rifiuta a una persona o a un gruppo di persone, per la loro razza, etnia o religione, un servizio da lui offerto e destinato al pubblico», viene infatti applicato con «troppa esitazione», commenta la direttrice della Cfr. Da un lato vi sono autorità giudiziarie che spesso, nonostante siano a conoscenza di fatti penalmente rilevanti, rinunciano ad avviare indagini preliminari, come invece sarebbero tenuti a fare (visto che si tratta di un reato punito d'ufficio e non solo dunque su querela della parte lesa). Dall'altro singole autorità inquirenti e tribunali tendono a dare «un'interpretazione discutibile della legge», che produce «conseguenze ingiuste e inappropriate», oltre che a «situazioni paradossali», come dimostra un caso verificatosi a Egerkingen (Soletta) che ha fatto cronaca (vedi box)
«In sostanza - spiega Doris Angst- secondo la prassi delle autorità giudiziarie è possibile, con la scusa della sicurezza, rifiutare a delle persone di partecipare a un evento semplicemente per la loro appartenenza etnica o razziale. Inoltre qualunque buttafuori può far valere il pretesto di non essere lui a rifiutare il servizio mentre il gerente se la può cavare con la scusa di non essere lui l'autore del reato. Evidentemente lo scopo dell'articolo 261 bis del Cps, cioè la tutela delle persone dalla discriminazione a sfondo razziale, in queste condizioni non è adempiuto».
La Commissione federale contro il razzismo è convinta che l'attuale quadro normativo consentirebbe ai giudici di pronunciare «più sentenze e più condanne». «Manca però la volontà politica di farlo», commenta la direttrice, auspicando comunque una modifica di legge: in particolare andrebbe introdotto, a livello di diritto civile, un divieto generale di discriminazione nell'accesso a servizi offerti da privati. «Così si invertirebbe l'onere della prova e toccherebbe al gestore che ha escluso delle persone dal suo locale dimostrare di non aver agito per discriminare una razza o un'etnia», conclude Doris Angst.
In attesa che su questo fronte qualcosa si muova, la Cfr si appella alle associazioni dei gestori di bar, discoteche e locali notturni ed alle agenzie di sicurezza «ad impegnarsi in modo coerente contro le discriminazioni avvalendosi del sostegno di istituzioni specializzate nella lotta al razzismo». È dunque «determinante incrementare l'opera di sensibilizzazione».
In questo senso fa scuola un progetto realizzato nel 2009 dalla città di Berna, in collaborazione con la Cfr e un'associazione contro la violenza e il razzismo da molti anni attiva nel mondo delle tifoserie di calcio e di hockey della capitale federale. Un progetto che ha portato all'elaborazione di un promemoria con cui si invitano i gestori di bar discoteche e club notturni a «ripensare» il concetto di sicurezza, in particolare attraverso una migliore formazione del personale, una chiara comunicazione delle regole e una scelta degli addetti che non badi solo al costo ma anche alla loro competenza. Particolare interessante: l'intervento della Commissione federale contro il razzismo è stato richiesto dalla polizia bernese.

«Pratica diffusa nei locali zurighesi»
La testimonianza di un agente di sicurezza croato: mi tocca allontanare la «mia gente»

Zurigo – «L'esclusione di determinate categorie di giovani stranieri da bar, discoteche e club è una pratica corrente, almeno secondo la mia esperienza. E lo dico con tristezza perché il più delle volte vittima della discriminazione è la mia gente». H.R (il nome è noto alla redazione), 29 anni, è un giovane di origini croate che vive e lavora a Zurigo, dal lunedì al venerdì come operaio e il weekend come agente di sicurezza per una piccola società del ramo. «Ho moglie, due figli, un terzo in arrivo e devo dare una mano ai miei genitori. Non ci sono molte alternative al doppio lavoro», spiega. Un lavoro, quello accessorio, che gli ha consentito di conoscere a fondo la realtà delle notti zurighesi, degli eccessi e delle contraddizioni che le caratterizzano. «Purtroppo -ci racconta con preghiera di garantirgli l'anonimato- c'è molta violenza in giro e molti gestori di locali credono di evitare guai impedendo l'ingresso a determinati gruppi di stranieri. Di solito se la prendono con gli slavi e gli africani, ma sbagliano perché la violenza non è un problema di passaporto o di etnia».
H.R ci mostra allora un video amatoriale girato in una delle discoteche più alla moda di Zurigo, in cui si vede un avventore che colpisce con una decina di coltellate sul fianco un agente di sicurezza che poco prima lo aveva allontanato dal locale per il suo comportamento inadeguato. «L'aggressore era un tedesco, mentre il gestore del locale è uno che ordina agli agenti di sicurezza di escludere cittadini dei Balcani», commenta H.R, vittima a sua volta, un paio di anni fa, di «una spedizione punitiva». Con un collega presidiava l'ingresso di un locale molto frequentato del centro storico di Zurigo, quando è scattata l'aggressione da parte di un gruppo di una trentina di italiani, che volevano vendicare l'allontanamento dalla stessa discoteca di uno di loro avvenuto qualche settimana prima. «Abbiamo preso un sacco di botte sotto gli occhi quasi compiaciuti dei passanti. Ho provato davvero una brutta sensazione. Ma al di là di questo aspetto personale, ritengo che casi come questi dovrebbero aiutare a far capire quanto sia insensato e illusorio pensare di prevenire la violenza con misure razziste», conclude il giovane, che però teme un aumento degli episodi di discriminazione razziale: «Mi vengono in mente almeno una dozzina di locali nella sola Zurigo che so ricorrere a questo tipo di "selezione" dei clienti». 

Norma penale lacunosa e poco utilizzata

Nel giugno 2004 a due giovani albanesi del Kosovo viene negato l'ingresso in una discoteca di Egerkingen (Soletta). Uno dei due addetti alla sicurezza che sorvegliano l'entrata spiega loro che, «per ordine della direzione, al momento e fino a nuovo avviso» le persone di origine balcanica non sono ammesse. I due inoltrano denuncia penale per discriminazione razziale sia contro il buttafuori che contro il gestore del locale, ma entrambi saranno prosciolti. Il primo perché non ha agito con l'intenzione di discriminare (ma con quella di garantire la sicurezza della discoteca) e perché non è colui che offre il servizio, il gestore invece poiché non è provato che abbia impartito un ordine fondato su motivi di discriminazione razziale.
Questa è una storia che dimostra in modo esemplare i limiti dell'attuale legislazione svizzera in materia di lotta al razzismo. Un recente rapporto della competente Commissione federale parla di «vistose lacune» del diritto, che si traducono in una mancata tutela di quelle persone che vengono per esempio discriminate nella ricerca di un lavoro o dell'alloggio per il colore della loro pelle o l'appartenenza etnica. Del resto, parlano chiaro i dati statistici sull'applicazione della norma penale contro il razzismo: tra il 1995 e il 2007 sono state registrate 438 denunce e 228 sentenze.
  

Pubblicato il

25.06.2010 01:00
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