Razzismo, prudenza elvetica

La norma penale che riguarda la discriminazione razziale è al centro delle attenzioni sin da quando il popolo l'ha accettata il 25 settembre del 1994. Il partito democentrista e il suo Consigliere federale, Christoph Blocher, non hanno mai nascosto di non aver digerito una legge – secondo loro – "bavaglio"; come non nascondono neppure l'avversione per la Commissione federale contro il razzismo (Cfr). Anche nel corso del 2007 l'Udc ha tentato di dare una spallata all'articolo 261bis. Ha cercato di farlo ad una tavola rotonda che si è tenuta in aprile alla presenza di Christoph Blocher che aveva invitato all'ultimo alcuni esperti. Una trovata mediatica più che una vera discussione, come ci aveva confermato allora Cécile Bühlmann della Cfr (area n.22-23, 1° giugno 2007) che era fra gli invitati. Per i democentristi il nodo – così dicono – resta sempre l'eccessiva limitazione della libertà d'espressione, una legge "bavaglio" insomma che non permetterebbe al popolo svizzero –  e soprattutto all'Udc – di esprimersi liberamente.
Ma è davvero così facile ricorrere all'articolo 261bis ed essere incriminati per discriminazione razziale? In realtà non lo è per niente. E non sono solo i mezzi di prova ad essere un ostacolo. Lo dimostra uno studio sulla giurisprudenza prodotta in 10 anni di applicazione della norma penale sul razzismo. Dal 1995 al 2004 sono stati 277 i casi che sono finiti davanti alle autorità giudiziarie. In quasi la metà di essi è stato abbandonato il procedimento. I casi sfociati in una condanna sono stati 114 (nelle tabelle in pagina la composizione degli autori, vittime e dei mezzi usati). Ma lo studio condotto da Fabienne Zannol (con la collaborazione di Gabriella Tau e Sabine Kreienbühl) – come ci spiega nell'intervista che segue Doris Angst della Cfr – non è un'indagine quantitativa delle decisioni in materia di discriminazione razziale, piuttosto un'analisi qualitativa della loro giurisprudenza. E visto sotto questa nuova luce, il "bavaglio" dell'Udc diventa al massimo un "bavaglino". Perché finora i giudici hanno davvero applicato in maniera molto prudente (forse troppa) l'articolo 261bis.

Doris Angst in 10 anni di esistenza dell'articolo 261bis le autorità giudiziarie sono state chiamate a pronunciarsi su 277 denunce riguardanti casi di presunta discriminazione razziale. Come valuta questo numero?
Credo che non si possa dare un'interpretazione numerica dell'articolo 261bis. Siamo solo all'inizio dell'applicazione di una nuova norma giuridica. Non si può dire se è poco o troppo poco. È interessante seguire non solo l'ampiezza del fenomeno, ma anche la sua evoluzione. In soli 10 anni sarebbe però prematuro tirare delle conclusioni dalle cifre.
Nella metà dei casi le autorità inquirenti hanno deciso l'abbandono del procedimento…
…intende dire che l'articolo 261bis viene applicato troppo timidamente?
Non per forza. Guardando l'altra faccia della medaglia si potrebbe dire che si ricorre troppo spesso alla discriminazione razziale anche quando non sussiste.
No, non credo che sia giustificabile una tale interpretazione e le spiego perché. L'articolo 261bis è una norma penale perseguibile d'ufficio. Ciò vuol dire che non c'è bisogno di una querela di parte per far nascere una procedura. Qualsiasi persona che è testimone di un atto che ritiene discriminatorio – anche una frase in un giornale, oppure vignetta, eccetera – può denunciare il caso. Quindi non spetta solo alla vittima fare querela. Le autorità stesse sono tenute, appunto d'ufficio, ad avviare una procedura nel caso in cui vi sia sospetto di discriminazione razziale. Potete così immaginare che ci sono più persone che denunciano casi che non adempiono alle condizioni del 261bis. È questa la ragione principale per la quale nella metà dei casi l'autorità non ha proceduto. Credo piuttosto che questa cifra dimostra che in Svizzera l'applicazione della norma penale contro il razzismo è applicata in maniera molto prudente, e non che si urla troppo spesso al razzismo. D'altra parte però va fatto notare che nell'80,8 per cento dei casi in cui si è proceduto si è giunti ad una sentenza di colpevolezza, sentenze anche con un certo grado di severità.
Non si parla quindi troppo spesso a sproposito di casi di razzismo?
In un certo senso sì. Perché spesso la gente o i media si chiedono se un tale atto è razzista. Ma le condizioni da adempiere nell'articolo 261bis per giungere ad una condanna sono molto restrittive. La discriminazione razziale in senso giuridico è ben definita. È soprattutto il carattere pubblico dell'atto a restringere l'applicazione del 261 bis. Si è giunti fino al tribunale federale per creare la giurisprudenza che ha definito cosa è privato e cosa è pubblico. Il razzismo nell'ambito privato non è punibile, lo è solo quando l'atto xenofobo avviene in pubblico. Non è quindi vero, come rileva per altro anche lo studio che si è basato su tutti e 277 i casi, che non è possibile esprimersi in maniera razzista in privato. Ci sono anche altre barriere – oltre alla questione pubblico o privato – come la definizione di cosa sia un gruppo, una razza, oppure un'etnia. Ad esempio gli omosessuali o le donne non sono considerati un gruppo. Non è corretto dire che gli omosessuali oppure le donne non sono un gruppo, ma questi "gruppi" non possono oggigiorno essere ritenuti vittime di discriminazione razziale ai sensi dell'attuale norma penale. Lo stesso discorso vale per gli stranieri (cioè i non-svizzeri): non sono considerati né una razza né un gruppo. La propaganda xenofoba nei loro confronti non è punibile.
Nelle conclusioni dello studio c'è scritto che la libertà d'espressione non è in realtà così intaccata come sostengono i critici di questa norma penale. È una risposta diretta a Christoph Blocher e al suo partito?
Non è una risposta al signor Blocher, anche perché lo studio è stato condotto prima delle esternazioni di quest'anno del consigliere federale. Non sono opinioni quelle contenute nello studio, ma l'indagine basata sulle sentenze emesse in 10 anni di applicazione di un nuovo articolo di legge. I giudici hanno agito in maniera oculata e prudente. L'ingiuria razzista è stata punita quando ha toccato la dignità della persona oppure quando è stata un'incitazione all'odio e al razzismo nei confronti di una razza, un'etnia o un gruppo (in 10 anni vi è stato un solo caso che ha riguardato i clienti di ritrovi pubblici e l'imputato è stato prosciolto, ndr).
Lo studio non presenta nessuna critica nei confronti dell'articolo 261bis. Ci sono dei limiti in questa norma penale? Quali sono?
Lo studio mostra che c'è una pratica giuridica che si è evoluta. Una pratica che non è come la descrivono i critici. Non c'è quindi alcuna ragione per abolire questa norma. È una legge come le altre che ha bisogna di farsi una giurisprudenza. Il limite? A mio avviso è che la discriminazione razziale in Svizzera è stata relegata – a differenza dell'Unione europea che ha addirittura emesso una direttiva in tale senso – unicamente nell'ambito penale. Le vittime di ingiurie razziste non possono costituirsi parte civile e non possono chiedere una riparazione morale. Anche la libertà d'espressione incondizionata è un limite, deve trovare un confine quando minaccia la dignità umana.
Che cosa cambierebbe se ci fosse un articolo sulla discriminazione razziale anche nel codice civile?
Ci sarebbe maggiore protezione: ad esempio nell'ambito professionale, ma anche nei contratti di affitto oppure nell'assicurazione auto e altri. Verrebbe toccato anche l'ambito economico della discriminazione. Coloro che criticano l'articolo 261 bis in realtà lo conoscono molto bene e sanno come sfruttarlo. Prenda ad esempio l'ultimo manifesto elettorale dell'Udc, quello con le pecore. Che sia pubblico non c'è dubbio, è stato affisso dappertutto. Ma quale giudice giungerebbe alla conclusione che la pecora nera rappresenta ad esempio i criminali stranieri, oppure una razza o un gruppo? Queste persone sanno molto bene quali sono i limiti dell'articolo che tanto criticano e sanno come sfruttare questi limiti.

Pubblicato il

31.08.2007 01:00
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