Raf, ritornano i fantasmi

È tempo di un primo bilancio per gli ideatori di “Zur Vorstellung des Terrors: Die Raf-Ausstellung”, la mostra sul gruppo terroristico tedesco Rote Armee Fraktion organizzata dall’istituto di arte contemporanea Kunst-Werke di Berlino che, fin dai giorni della sua progettazione, ha suscitato grandi polemiche, in parte tuttora in corso. L’esposizione, che ha chiuso i battenti domenica scorsa, in quasi cinque mesi di durata ha presentato a diverse migliaia di visitatori oltre cento lavori, tra dipinti, sculture, fotomontaggi, installazioni e videoinstallazioni, ispirati alla storia della Raf e realizzati nel corso di oltre tre decenni da una cinquantina tra artisti tedeschi e stranieri. Tra i nomi più noti: Joseph Beuys, Gerhardt Richter, Peter Friedl, Dara Biernbaum e Franz Ackermann. Accanto alla sezione artistica, nei locali di “Kunst-Werke” era visitabile anche un’ampia sala dedicata alla storia della Raf, dei suoi crimini e della reazione dello Stato. Il tutto ricostruito attraverso le prime pagine di quotidiani e settimanali e le aperture dei telegiornali d’epoca. Dal 2 giugno 1967, data dell’uccisione dello studente Benno Ohnesorg da parte della polizia nel corso di una manifestazione, all’aprile 1998, quando la Raf comunicò il proprio scioglimento, passando per i rapimenti e le uccisioni di Buback, Ponto e Schleyer e per i “suicidi” in carcere della Meinhof prima e di Baader, Raspe e della Ensslin poi, gli organizzatori hanno individuato 29 date cruciali nella storia degli anni di piombo tedeschi. Un lavoro, questo, tutt’altro che secondario rispetto all’esposizione vera e propria. La ricostruzione mediatica della sanguinosa parabola della Raf è servita, infatti, a colmare le lacune di molti visitatori, specie tra coloro che negli anni ’70 non erano ancora nati o erano troppo giovani per comprendere le cause del terrorismo. In questo modo i tre ideatori della mostra, Klaus Biesenbach, Ellen Blumenstein e Felix Ensslin (figlio di Gudrun Ensslin, cofondatrice della Raf), hanno rimediato, almeno in parte, all’approfondimento storico contemplato dal progetto iniziale, ma eliminato dopo il ritiro dei finanziamenti pubblici all’iniziativa (che ha invece avuto il sostegno di Pro Helvetia). La mostra sulla Raf, infatti, avrebbe dovuto essere inaugurata già nel gennaio del 2004, avrebbe dovuto chiamarsi: “Mythos Raf” e, soprattutto, prevedeva la collaborazione dello storico Wolfgang Kraushaar. Gli organizzatori non avevano fatto però ancora i conti con la demagogia del quotidiano “Bild” che, nell’estate del 2003, forse in assenza di notizie più rilevanti, cominciò una quotidiana campagna di demonizzazione del progetto. Fino a che gli argomenti rimasero sul livello: “Perché finanziare coi soldi pubblici una mostra sulla Raf, quando in Germania è in costante aumento la povertà infantile?” alla Kunst-Werke ci risero sopra, quando però il giornale scandalistico pubblicò in prima pagina le critiche della vedova di una vittima della Raf, le cose precipitarono. Su pressione del ministro federale degli interni, Otto Schily, e dello stesso cancelliere Schröder (per ironia della sorte entrambi ex avvocati difensori di alcuni membri della Raf) i finanziamenti pubblici vennero ritirati. Dei 100 mila euro previsti in partenza, agli organizzatori rimase solo la parte che avevano già speso. A quel punto fu necessario cercare sponsor privati e raccogliere fondi attraverso un’asta di opere donate da artisti amici. Il progetto subì così un ritardo di un anno e si dovette rinunciare all’aspetto storico curato da Kraushaar. La mostra, col progetto dimezzato e col nuovo titolo, è stata aperta al pubblico lo scorso 29 gennaio, ma, nonostante il ridimensionamento, le polemiche non si sono attenuate. A molti il clima da caccia alle streghe scatenato contro gli organizzatori, accusati di esaltare i terroristi e dimenticare le loro vittime, ha ricordato il 1981, anno di uscita del film: “Die bleierne Zeit” (“Gli anni di piombo”) di Margarethe von Trotta. Solo che da allora sono trascorsi 24 anni, la Raf si è sciolta e le ferite dovrebbero cominciare a rimarginarsi. Anche in questa versione ridotta la mostra risulta comunque un interessante tentativo di mettere a confronto l’effetto prodotto dal “fenomeno Raf” sull’informazione da una parte e sull’arte dall’altra. Solo in un punto, forse, gli organizzatori hanno commesso un errore, per altro tipico per dei critici d’arte. Vale a dire la pretesa di rivolgersi al grande pubblico senza, però, spiegare adeguatamente il contesto e le finalità di molti lavori concettuali esposti. Difficilmente, infatti, il visitatore poteva comprendere da sé il senso dell’installazione di Beuys, che si riproponeva di risocializzare la Baader-Meinhof attraverso l’arte, o che una delle installazioni del giovane Johannes Wohseifer riproduceva alla perfezione le dimensioni dell’armadio in cui fu tenuto prigioniero il presidente degli industriali Hans Martin Schleyer per buona parte del suo rapimento. La mostra in estate traslocherà a Graz, in Austria, dove, tra il 24 giugno e il 28 agosto sarà visitabile presso la Neue Gallerie am Landesmuseum. Per i prossimi mesi sono previste esposizioni in altre città tedesche ed in Olanda. In Svizzera, per ora, solo contatti ma nulla di certo. “Il mito? Fu creato dai media” Ellen Blumenstein è nata proprio nel mezzo dei cosiddetti anni di piombo. Solo degli ultimi sanguinosi strascichi della stagione del terrorismo tedesco, a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, conserva qualche sbiadito ricordo. Quello che sa della Raf e dei suoi crimini, della violenza di Stato e delle leggi speciali lo ha letto sui libri o lo ha sentito raccontare da parenti e amici più anziani. I suoi 29 anni non le hanno però impedito di progettare e realizzare, assieme a Klaus Biesenbach e Felix Ensslin di soli dieci anni più grandi, una delle mostre più discusse degli ultimi decenni in Germania. «Sapevamo fin dall’inizio di muoverci su un terreno minato, – spiega Ellen Blumenstein – in un contesto dove sono tuttora in gioco emozioni forti e dove la politica e la stessa storiografia non hanno ancora dato, o voluto dare, risposte esaurienti ai tanti interrogativi ancora aperti. Il nostro intento non è mai stato quello di confrontarci con l’ideologia della Raf, bensì con l’effetto delle sue azioni sull’opinione pubblica. Abbiamo voluto contribuire, a nostro modo, all’elaborazione di quel periodo storico, mostrando come la Raf, i destini dei suoi membri e delle loro vittime, ma anche le risposte draconiane da parte dello Stato, siano temi già ampiamente affrontati da tre diverse generazioni di artisti tedeschi e stranieri». L’arte come mezzo di analisi storica, insomma? Il nostro intento non era certo quello di far indossare agli artisti i panni degli storici, anche se molta critica ha voluto riconoscere questo obiettivo nel nostro progetto. L’esposizione sulla Raf è, invece, il tentativo di mostrare assieme, in uno stesso spazio, tutti i contributi artistici sul terrorismo tedesco e metterli a confronto con quanto scritto e detto dai mass media negli anni di piombo. E qual è il risultato di questo confronto? Anche gli artisti, come il resto dell’opinione pubblica, sono fortemente influenzati dalle notizie lette sui giornali o ascoltate alla radio o alla televisione. Nelle loro opere il riferimento ai titoli della “Bild” o alle aperture dei telegiornali nei giorni più drammatici del terrorismo è spesso palese e voluto. La differenza sta però nell’elaborazione, spesso critica, che ne fanno. Non mi sembra invece che nell’analisi storica e nel dibattito politico ci si sia mai staccati dall’accettazione passiva dell’informazione ufficiale. Cosa risponde a chi vi accusa di contribuire alla mitizzazione della Raf? Ecco, proprio qui sta il punto. L’accusa non solo è superficiale e ridicola, ma perde di vista il fatto che sono stati, se mai, proprio i mass media, a creare il mito Raf. La Rote Armee Fraktion, a differenza, ad esempio, delle Brigate rosse italiane del primo periodo, non avevano il men che minimo sostegno tra la popolazione. Si trattava di venti, trenta individui, che pensarono di poter scendere, da soli, in guerra contro lo Stato. Sono stati i media a dare loro un’enorme risonanza, a farne dei fenomeni da copertina. Chiaro, era inevitabile, data la portata dei loro attacchi, ma, se mitizzazione c’è stata, è cominciata proprio allora. Alla luce delle infinite polemiche che hanno accompagnato la mostra, quali errori si potevano evitare da parte vostra? Di errori se ne commettono sempre, specie a realizzare una mostra “difficile” come questa. Un errore che in molti ci attribuiscono, ma che noi non abbiamo commesso, è quello di aver mostrato poca sensibilità nei confronti dei parenti delle vittime della Raf. Trovo la critica del tutto fuori luogo. Abbiamo contattato tutte le famiglie delle vittime già in fase progettuale e le abbiamo sempre informate riguardo alle scelte più importanti. Inoltre, chi di loro ha voluto, ha avuto modo di visitare l’esposizione prima dell’apertura ufficiale, così da poterci sottoporre eventuali critiche. Mi sarebbe piaciuto approfondire, invece, alcuni aspetti del nostro progetto, tracciare, ad esempio, dei collegamenti tra il contesto tedesco e quello italiano. Entrambi i paesi, infatti, hanno vissuto una stagione di terrorismo che li ha segnati profondamente. Rimane un bilancio positivo, comunque? Senza dubbio sì. La mostra è stata visitata da tantissima gente. Il progetto ha avuto una grande risonanza, e non solo in Germania. Moltissimi sono stati i giovani e gli stranieri che hanno approfittato della mostra per ricostruire una pagina di storia tedesca a loro poco nota. E poi, soprattutto, la soddisfazione di riunire negli spazi della Kunst-Werke tutto ciò che il mondo dell’arte ha espresso riguardo ai nostri anni di piombo.

Pubblicato il

20.05.2005 03:00
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