Sarandë è una città di circa 30.000 abitanti sulla costa meridionale dell’Albania, di fronte a Corfù. Deve il suo nome (“Quaranta” in albanese e in greco) all’antico monastero sulla collina alle spalle dell’abitato, dedicato ai quaranta martiri cristiani giustiziati nel 320 d. C. a Sebaste nell’Armenia minore, molto venerati nella Chiesa ortodossa. Quando il 7 aprile 1939 venne occupata da una delle quattro colonne dell’esercito di invasione italiano, ebbe lo sgradito privilegio, fortunatamente per pochi anni, di avere un nome italianizzato, Santi Quaranta. Mentre, sempre per pochi anni, Vittorio Emanuele III si faceva chiamare “Re d’Italia e d’Albania e imperatore d’Etiopia”. Nel porto l’acqua è limpidissima, gli albanesi vengono in vacanza d’estate per godere le spiagge, la frutta e le specialità culinarie del posto. I turisti stranieri arrivano piuttosto per visitare l’antica città di Butrinto, 20 chilometri più a sud, su un’isola rocciosa di una suggestiva laguna. Butrinto conserva imponenti edifici del periodo ellenistico e romano: una cinta muraria impressionante, porte monumentali, il santuario di Asclepio, un teatro quasi intatto, diverse terme, fontane, mosaici pavimentali, una grande basilica e un battistero cristiani. All’entrata del teatro, le pietre dei muri sono fittamente coperte da iscrizioni che attestano ognuna l’avvenuta emancipazione di uno schiavo da parte del suo proprietario, con l’invocazione al dio del luogo chiamato a testimonio. Quasi un archivio pubblico. Un cittadino poteva dire: sono un uomo libero perché su quella pietra è scritto il mio nome, il nome del padrone generoso e la data della liberazione. Sul lungomare di Sarandë oleandri, negozi di souvenir, caffè, gente a passeggio, bambini che giocano. A distanze regolari sono collocati gruppi marmorei o forse di pietra artificiale raffiguranti i diversi mestieri praticati dagli abitanti della regione. Per esempio la raccolta delle arance: sotto un albero stilizzato una donna alza le mani per staccarle dai rami, una si china per raccoglierle da terra, un’altra le ripone in una cesta. In quel punto la giovane guida locale, che parla francese, ferma la comitiva dei turisti e in un tono quasi di scusa dice: queste statue sono state collocate dal regime precedente, che aveva la mania di celebrare il lavoro. E sembra sottintendere: ora non è più così, ci siamo finalmente liberati da tale fissazione. Ora guadagnarsi da vivere con il lavoro è diventato motivo di vergogna. Dal 1967 al 1972 a Radio Tirana lavorava un intellettuale svedese di cultura franco-svizzera. I mezzi erano limitati: assenza di corrispondenti all’estero, isolamento internazionale, difficoltà nel tradurre in lingua locale concetti propri di altre lingue, necessità di far fronte alla propaganda di Voice of America, Radio Free Europa, Radio Vaticana, Radio Mosca eccetera. Perciò le sue valutazioni sulla qualità dell’informazione erano piuttosto indulgenti. Tuttavia non rinunciava a esprimersi sui difetti più vistosi, l’invadenza del partito, gli eccessi di burocrazia, gli errori. Per esempio il giudizio caricaturale che la radio dava sulla situazione economica nell’Europa occidentale, costantemente descritta come quella della Gran Bretagna ai tempi di Charles Dickens. In quegli anni l’Europa era al culmine del suo benessere, non era possibile andare contro l’evidenza! Ma al momento della pubblicazione delle sue memorie nel 2016 egli scrive: agli inizi degli anni Settanta sarebbe stato necessario correggere quell’atteggiamento esageratamente autocelebrativo, ma oggi tutto questo appare invece come un’anticipazione profetica, perché la situazione che vediamo con i nostri occhi nell’Europa di questi tempi è quella che descriveva Radio Tirana quarant’anni fa!
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