“Tenetevi le vostre lacrime”, grida in corteo la Bologna democratica. Quelle dei dirigenti dell’Enel addolorati per la strage operaia che si è compiuta nella centrale idroelettrica degli Appennini bolognesi sono lacrime di coccodrillo, come quelle del padrone del mattone che mezzo secolo fa metteva la sua giacca a coprire il corpo dell’operaio caduto dall’impalcatura del cantiere, o come un secolo fa alla processione indetta dal padrone della miniera dove 5 o 10 esseri umani costretti a lavorare in condizioni di schiavitù erano stati ammazzati da un’esplosione di grisù, o da una mina con la miccia troppo corta per guadagnare mezz’ora di tempo cioè più produzione, cioè più dividendi per la proprietà. Cos’è cambiato un secolo dopo? Se chiedono tutti quelli che giovedì hanno manifestato con rabbia e dolore a Bologna e in tutt’Italia hanno scioperato con la Cgil e la Uil per dire basta ai morti e ai feriti sul lavoro. Morti ammazzati perché per il pensiero quasi unico il profitto viene prima della salute e della vita di chi ancora oggi quando esce di casa per andare al lavoro non sa se a casa tornerà, se potrà riabbracciare i figli, la moglie o il marito. Come un secolo fa, non ci si può scegliere il padrone o il lavoro, si prende quel che arriva. Operai che hanno per nemico il capitalismo e la politica a esso asservita; operai che hanno anche buone leggi che dovrebbero difenderlo ma non vengono applicate perché non ci sono ispettori e i soldi servono ad altro, a riarmare il paese; ma hanno anche leggi nuove sfornate proprio per cancellare la dignità di chi lavora riducendo i margini di sicurezza e l’attesa di vita. “Non metteremo ostacoli a chi vuol fare”, ha promesso Giorgia Meloni al suo insediamento. Certo che vogliono fare, i padroni pubblici e privati, vogliono fare profitti e sanno che più si comprimono i diritti dei lavoratori più se ne fanno. E lo sa la destra al governo che ha varato leggi liberticide come l’estensione della precarietà già introdotta dai governi precedenti, come quello guidato da Renzi che ha fatto a pezzi lo Statuto dei lavoratori. Lo sa bene Meloni che per lasciar fare i padroni ha introdotto i subappalti a cascata che funzionano come le bombe a grappolo. Muoiono più di tre lavoratori al giorno, ben più di mille l’anno e sono soprattutto dipendenti di aziende che operano in subappalto, per la semplice ragione che man mano che la filiera dello sfruttamento si allunga, si restringono i diritti e si accorcia l’aspettativa di vita. Tutte cose risapute, come anche l’allungamento dell’età lavorativa e la pensione ridotta a una chimera: un terzo dei lavoratori uccisi ha più di sessant’anni, una delle vittime della centrale di stato a 73 anni stava lavorando al collaudo di una turbina a 40 metri sotto il livello del lago quando la turbina è esplosa e con essa sono impazziti gli elementi primari, il fuoco e l’acqua e i soppalchi crollati sugli operai in mezzo alle fiamme e all’acqua del lago, uccidendo almeno 6, molto probabilmente 7 e speriamo non 8 lavoratori. L’Enel può dire di avere le mani pulite Tranquilli, dice l’amministratore delegato dell’Enel Green power Salvatore Bernabei, manderemo le équipe di psicologi dalle famiglie delle vittime perché siamo loro vicini. Meglio che stiate lontani, ricordate le corone della ThyssenKrupp buttate giù per la scalinata del Duomo di Torino durante il funerale di sette operai uccisi. Ma noi abbiamo scelto le ditte migliori, dice il dirigente, peccato che poi quelle abbiano a loro volta subappaltato. Già, perché non esiste la responsabilità della ditta primaria sull’intera filiera così l’Enel può dire: noi abbiamo le mani pulite. La Uil da due anni segnalava le anomalie della centrale, i rischi eccessivi, le difficoltose vie di fuga, la presenza di materiale chimico velenoso e infiammabile, senza ottenere risposta. Se si sapeva già tutto, la strage alla centrale idroelettrica di Bargi è dolosa, se l’Enel è una partecipata statale, la strage operaia è una strage di stato. Una centrale nata negli anni Venti del Novecento sotto i segni peggiori: sono morti 13 operai per costruire la diga, che per fortuna oggi ha resistito all’esplosione. Pavel veniva dalla Romania, viveva a Settimo torinese con la moglie e due figli gemelli di 14 anni; Mario era un pensionato Enel ma continuava a lavorare come esperto consulente e a scendere a 40 metri di profondità sotto un lago; Vincenzo di anni ne aveva solo 36, sposato da pochi mesi, padre di un bambino di tre mesi, era trasfertista. Queste sono le vittime trovate subito dopo l’esplosione, mentre altri 5 loro colleghi sono stati portati in diversi ospedali e uno, intubato, rischia la vita per ustioni in tutto il corpo. Altri quattro operai ammazzati sono stati ripescati dai sommozzatori 48 ore dopo l’esplosione, uno si chiamava Adriano, uno dei pochi dipendenti dell’Enel, il secondo Paolo, tecnico specializzato di Sesto San Giovanni, il terzo Alessandro, 37 anni, tecnico specializzato, il quarto Vincenzo, 68enne napoletano, in pensione da un anno ma poi divenuto consulente di una società di ingegneria.
Mentre scriviamo i sommozzatori e molte squadre di vigili del fuoco sono al lavoro in condizioni difficilissime e con l’incubo di nuove esplosioni, nuove fiammate e nuovi crolli, altro fumo e prodotti chimici pestilenziali all’interno di quella centrale che al momento della catastrofe ha visto l’acqua del lago ribollire, il fumo e le fiamme uscire. Un incubo che per poco non ha travolto una classe di studenti in visita, salvata dall’odore di bruciato che ha preceduto l’esplosione sentito dal professore che ha fatto salire tutti in pullman e li ha portati in salvo. Una lunga scia di morti A febbraio un cantiere dl supermercato Esselunga di Firenze crolla e ammazza 5 operai di un subappalto; ad agosto del 2023 altri 5 operai manutentori della ferrovia, in subappalto, travolti da un treno “di stato”; prima ancora 3 edili schiacciati da un’autogrù, e a Pavia 4 annegati in una vasca agricola; 4 metalmeccanici uccisi dal gas in una vasca a Milano e altri 4 uccisi dall’acido fosforico ad Adria, per arrivare ai 7 operai arsi vivi alla ThyssenKrupp di Torino. Chi scrive non ha più parole, metafore, invettive per raccontare dolore e rabbia di una comunità operaia abbandonata, tradita, sbianchettata. Ci indigniamo quando ci dicono con saccenza e stupidità che la classe operaia è morta, gli operai non ci sono più, forse vogliono solo dire che li stanno uccidendo a uno a uno. A sette alla volta si fa prima. Al 12 aprile siano già a 372 morti, un vero record di cui i sovranisti e gli ignavi possono andare fieri. |