Tra le molte attività che riprenderanno lunedì 11 maggio, spicca quella del Fox Town di Mendrisio, luogo simbolo dello shopping ticinese. Non sarà l’unico centro commerciale a riaprire i battenti, ma considerate le 1.200 persone che vi lavorano, la sua ripresa assume una valenza particolare. La sua chiusura, il 12 marzo scorso, ha segnato la presa di coscienza collettiva della pericolosità del virus e anticipato l’adozione cantonale di misure radicali a salvaguardia della salute pubblica. A chiudere il Fox Town infatti, non è stata l’autorità, ma la clientela, ormai assente. A due mesi di distanza, l’unica certezza è che nulla sarà come prima. Le norme di sicurezza imposte dalla convivenza col virus determineranno i comportamenti sociali nei posti di lavoro nel medio e, probabilmente, nel lungo periodo. «Il personale è fortemente preoccupato, è innegabile», confida Giorgia*, una delle milleduecento venditrici attive al Fox Town. Gran parte di loro ha vissuto gli ultimi mesi la drammatica realtà lombarda, duramente colpita dal virus e le cui restrizioni imposte sono state ben più importanti di quelle ticinesi. Sebbene anche in Italia ora siano state leggermente alleggerite, le differenze restano importanti. «In Italia la mascherina è obbligatoria, mentre in Svizzera è solo raccomandata. Già solo questa differenza, non ci fa stare tranquille» spiega Giorgia. Le singole aziende si stanno adoperando per allestire i plexiglas nei punti vendita e dotarsi di mascherine per la clientela. «Vi sarà poi il problema di sanificare i capi d’abbigliamento provati ma non comperati e tutte le superfici toccate dai clienti. Un’operazione che richiederà del tempo, tanto più che il personale presente negli spazi vendita sarà forzatamente limitato dalla distanza sociale. Gestire tutti i compiti nuovi che avremo, oltre la normale attività, non sarà semplice» racconta la nostra interlocutrice. «Per noi che viviamo in un contesto di emergenza sanitaria quale la Lombardia, la riapertura di un centro commerciale di queste dimensioni, in una struttura chiusa e dotata di un impianto di areazione vetusto, la preoccupazione è alta» aggiunge Nadia*. «Al di là delle differenze di comportamento delle singole aziende, abbiamo scarse informazioni sulla gestione degli spazi comuni da parte della direzione» segnala Nadia. A inizio settimana, la direzione del Centro ha trasmesso il protocollo d’indicazioni dell’Ufficio federale della sanità pubblica, rielaborato dall’associazione di categoria della vendita al dettaglio. «Ma si tratta di un documento piuttosto generico, con le precauzioni che ormai tutti conosciamo» commenta la venditrice, auspicando un’informazione più chiara e proattiva del centro commerciale. Anche perché d’incertezza e di mancata trasparenza, le venditrici ne hanno avuto in abbondanza negli ultimi due mesi. Dopo la chiusura forzata, molte dipendenti sono state lasciate senza informazioni e, in alcuni casi, senza reddito per quasi due mesi. «In questo periodo, ci siamo tenute in contatto attraverso i social, condividendo le scarne informazioni che ognuna di noi riusciva a reperire. Direi che, salvo alcune lodevoli eccezioni, la sensazione comune è stata di sentirci abbandonate» racconta Nadia. Le lavoratrici non puntano il dito contro i propri datori di lavoro, bensì gli intermediari ticinesi.
Scarsa informazione «Le catene presenti al Fox Town, essendo dei gruppi internazionali, ignoravano l’esistenza del lavoro ridotto. Strumento invece ben conosciuto dalle fiduciarie ticinesi, pagate proprio dai gruppi internazionali per assolvere i compiti legali previsti in Svizzera», racconta Giorgia. Da quanto appurato da area, nemmeno la direzione del Fox Town si sarebbe spesa per informare gli affittuari gruppi internazionali della possibilità di far capo alle indennità di lavoro ridotto per le loro collaboratrici. Per contro, si è premurata di ricordare alle aziende l’obbligo di pagamento dell’affitto nei due mesi di chiusura forzata, informandole al contempo della possibilità della fideiussione facilitata e a tasso zero garantita dalla Confederazione. Alla fine, la tutela delle lavoratrici è arrivata solo grazie all’iniziativa delle gerenti che, informate dal sindacato, hanno avvisato le rispettive case madri dell’esistenza del lavoro ridotto, invitandole a sollecitare le fiduciarie ticinesi a muoversi in tal senso. «Da quel che so, alla fine la gran parte ha inoltrato la domanda di lavoro ridotto» conferma Giorgia. Non sono poi mancate aziende la cui responsabilità nei confronti delle dipendenti è venuta meno. «Nei giorni imminenti la chiusura, in alcuni casi sono stati rivisti al ribasso i contratti delle dipendenti, riducendo loro il monte ore settimanalmente garantito». In altri casi, l’inattività è stata scaricata sulle dipendenti con la riduzione delle vacanze. Ora da lunedì si riparte, con forti preoccupazioni per la tutela della salute ma non solo. Su tutte le dipendenti dell’outlet mendrisiense aleggia lo spettro della perdita del posto del lavoro nel prossimo futuro poiché, in queste condizioni, convincere la clientela a tornare non sarà una sfida da poco. |