Quello che vogliono i padroni

Un milione di licenziamenti, parola di Confindustria nuovo corso a guida Carlo Bonomi, quello che denuncia: «Vedo la politica tutta ripiegata su sé stessa e sui suoi dividendi elettorali». Lui e i suoi soci, invece, sono ripiegati su ben altri dividendi tanto che a nome del padronato italiano, preoccupato per le conseguenze del Covid-19, chiede al governo due anni di esenzione dall’Irap che, guarda caso, è la tassa regionale finalizzata al finanziamento della malconcia sanità pubblica. Un milione tondo tondo, forse esagera un po’ il Bonomi perché l’Italia non è l’America e licenziare a Roma è un po’ più difficile che a New York, ma lo fa per il suo bene e per convincere Conte&Co a dire sì al Mes, il prestito europeo con cui la troika ha affondato la Grecia. Però adesso le clausole sono state ammorbidite, è vero, e vale la pena rifletterci. Ma i nostri padroni non vogliono riflettere, vogliono solo i soldi, tanti benedetti subito e pubblici. Come la Fca (alias Fiat più Chrysler) che poverina è stata costretta a non distribuire i dividendi del 2020 per ottenere un prestito di 6,3 miliardi di euro garantito da quello stato italiano a cui non paga le tasse – neanche l’Irap, da 10 anni – perché ha portato la sede legale in Olanda e quella fiscale a Londra. Ma i 5 miliardi di (presunte) plusvalenze derivanti dalla fusione con la francese Psa intende spartirli tra gli azionisti nel bilancio 2021. Anche perché gli altri tre miliardi di plusvalenze provenienti dalla vendita della società di riassicurazioni PartnerRe ai francesi di Covéa sono venuti meno per mancata vendita. Presunti i 5 miliardi, perché dopo il disastro del coronavirus Psa vuole ricontrattare tutto. E poi, la nuova società che scaturirebbe dalla megafusione Fca-Psa dove pagherebbe le tasse? E dove chiuderebbe stabilimenti, dato il crollo non provvisorio della domanda mondiale di automobili? Il governo francese è proprietario di una quota di Psa e sa farsi valere; e quello italiano?


50mila dipendenti in Italia, per ora Fca non può licenziarne nessuno per non perdere i sostegni pubblici. Ma solo in Piemonte nella filiera dell’auto c’è un indotto di 300 aziende con 40mila dipendenti, e sempre in Italia sono intorno al milione i lavoratori avvinghiati alle quattro ruote. Il lockdown ha fatto crollare del 95% il mercato nazionale dell’auto. Perché non legare prestito e sostegno pubblico a una partecipazione statale all’impresa Fca? Se lo chiedono persino noti maître à penser liberisti. Se non si vendono automobili figuriamoci le lamiere, cioè l’acciaio: l’intero comparto siderurgico batte pesantemente in testa, con gli indiani di ArcelorMittal che, conquistato il marchio Ilva, già pensano a come alleggerirsi della manodopera a Taranto e a Genova, con i tedeschi di ThyssenKrupp che mettono in vendita la Ast di Terni, con lo stabilimento di Piombino in mano ad altri indiani, quelli di Jindal, fermo da una vita. Per l’ex-Ilva una presenza pubblica nel capitale è più che probabile. Così come, tanto per fare un altro esempio, in Alitalia in profondo rosso a cui sono finiti altri 3 miliardi statali.
L’idea di uno stato che intervenga sull’economia, come avviene in paesi come la Germania e la Francia, e sulle scelte strategiche con una sua idea di modello industriale comincia a farsi strada. Un modello che per il segretario Cgil Maurizio Landini dev’essere socialmente e ambientalmente compatibile. Ambientalmente vuol dire che non ha molto futuro una Fca che l’unico modello di vettura elettrica che ha in produzione è la Cinquecento.
Con una caduta del Pil per l’anno in corso che oscilla tra un -9 e un -13% c’è poco da scherzare, anche per chi è convinto che il Pil non sia l’unico né il principale parametro per valutare lo stato di salute di un paese, e di un popolo. Con l’auto e l’acciaio, giù anche gli elettrodomestici a cui multinazionali Usa come la Whirlpool staccano la spina a Napoli. Crolla a livello di massa il potere d’acquisto, si prosciugano i risparmi privati che sono il più importante salvagente degli italiani, gli occupati diventano precari e i precari disoccupati. Interi settori sono crollati come castelli di carta, turismo, spettacolo, l’editoria e in generale la cultura.


E c’è chi nella crisi sguazza e specula, come chi per non perdere i finanziamenti pubblici trucca i licenziamenti in trasferimenti di massa da una città all’altra come fa la Fiac, multinazionale svedese dei compressori che comunica d’ufficio la deportazione a Torino di tutti i dipendenti di Bologna. La Fiom è riuscita a fermare l’attacco. E c’è chi fa affari alla grande, come nei settori dell’online e delle consegne a domicilio che con il Covid-19 si sono gonfiati a dismisura. Sotto gli occhi della magistratura la Uber che si è lanciata nelle consegne dei pasti. Le accuse sono gravissime e più che documentate: sfruttamento dei ciclofattorini e caporalato. I caporali fanno capo alla Flash Road City ed Frc Srl, incaricata di reperire manodopera a bassissimo costo tra i migranti privi di permesso di soggiorno e tra richiedenti asilo rinchiusi in centri di accoglienza: persone disperate, disposte a sopportare persino gli schiavisti. Tre euro per ogni pasto consegnato a domicilio, persino le mance venivano requisite dai caporali, e giù minacce (“se non arrivi immediatamente ti rompo il culo”) e promesse di documenti in regola, multe, angherie, niente contributi. “Ce lo ordinava Uber”, racconta un manager (quello che voleva rompere il culo al rider non abbastanza “performante”) usando una linea di difesa simile a quella dei militari tedeschi a Norimberga. Uber Italy, che a sua volta aveva stretto un accordo con McDonald’s, è stata commissariata per un anno. È il primo caso verificatosi e non solo in Italia, potrebbe fare scuola. I rider in tre anni sono passati in Italia da zero a più di ventimila.

Pubblicato il

03.06.2020 16:22
Loris Campetti