Nel gennaio 2018, due notizie collegate ai conflitti sono passate inosservate. Il 23 un’imbarcazione con a bordo 152 migranti e rifugiati si capovolse dopo che uno dei trafficanti a bordo aveva aperto il fuoco, seminando il panico. Almeno 30 persone erano annegate. L’imbarcazione non era partita dalla Libia e non era diretta in Italia. A bordo c’erano somali ed eritrei, fuggiti dal caos e dai signori della guerra della Somalia e da una furiosa repressione in Eritrea. Erano salpati dal porto di Aden, nello Yemen. Tornavano verso i loro paesi, perché per oltre due anni avevano trovato la vita in Yemen persino meno peggiore di quella dei loro paesi di origine. Poi le cose erano cambiate. Pare assurdo ma all’inizio del 2018 in Yemen c’erano oltre 280.000 rifugiati e richiedenti asilo di altri paesi. Ed ecco l’altra notizia. C’è un paese che accoglie. Non è in Europa, ma in Africa. Sempre all’inizio dell’anno, il numero dei rifugiati entrati in Uganda ha superato il milione. A casa loro, nel Sud Sudan, è in corso dal 2015 una guerra furibonda, in cui i gruppi armati in conflitto bruciano le case con i civili all’interno, donne e bambine subiscono violenze sessuali e i bambini vengono rapiti e costretti ad arruolarsi. Non è una novità. Coloro che fuggono dai conflitti cercano riparo nei paesi confinanti: perché aver superato una frontiera dà una parvenza di sicurezza, perché sono allo stremo, perché non hanno denaro sufficiente per pagare gli onnipresenti profittatori delle disgrazie umane, perché sperano di poter tornare al più presto a casa loro. Nelle precarie tende per i rifugiati di guerra, si vive coltivando quell’illusione: che a casa loro possano tornare. Perché sono loro che vogliono tornarci, ancora prima che noi che vogliamo mandarceli. I siriani vogliono tornare a casa loro, ma quando la guerra sarà finita. I rohingya vogliono tornare a casa loro, ma quando il sistema di apartheid che li ha resi vittime di una vera e propria pulizia etnica in Myanmar sarà stato smantellato. Intanto, faticosamente, vengono accolti finché si può. La Giordania nel 2016 ha chiuso il confine con la Siria. Il Bangladesh lo ha tenuto aperto ai rohingya. E la prima ministra di questo paese, Sheikh Hasina, ha detto alle Nazioni Unite: «Siamo un paese povero ma cerchiamo di sfamare i nostri 160.000 di abitanti. Se ci sarà un milione in più, sfameremo anche quello». Parole che dovrebbero essere ascoltate dai leader dei paesi che potrebbero fare di più e che invece stanno ricorrendo a tutto un armamentario di misure dissuasive per evitare gli ingressi, usando la retorica della cosiddetta “invasione” e dei “falsi rifugiati”. Anche un bambino potrebbe arrivare alla conclusione che per “farli restare a casa loro” si dovrebbero creare le condizioni favorevoli: destinare aiuti allo sviluppo autentico e non ingrassare le casse dei dittatori; smettere di alimentare le guerre per convenienza politica; cessare di inviare armi laddove ci sono conflitti in corso. E invece si fa esattamente tutto questo. E viene da chiedersi: è così che li stiamo aiutando a stare (o a tornare) a casa loro? E quando li facciamo tornare a casa loro, stiamo facendo la cosa giusta da un punto di vista etico e giuridico? C’è una terza notizia, anche questa passata ampiamente inosservata, che riguarda l’Europa: i rimpatri forzati di cittadini afgani in un paese dove la violenza dei gruppi armati (e, in parte, delle forze governative e di quelle straniere ancora presenti nel paese) ha fatto 20.000 vittime civili negli ultimi due anni. E l’Europa li sta rimandando lì, a morire. L’11 luglio il ministro dell’Interno della Germania si è vantato di aver firmato 69 rimpatri in Afghanistan il giorno del suo 69esimo compleanno. Appena atterrato, uno dei 69 si è impiccato: aveva 23 anni, era in Germania da quando ne aveva 15.
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