Esteri

Quello che rischia il ricercato Netanyahu

Dopo il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale contro il premier israeliano per “crimini contro l'umanità”, il mondo si divide sulla validità della decisione

La Corte penale internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, e per il capo militare di Hamas, Mohammed Deif, per “crimini contro l’umanità” commessi dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 che hanno causato 1.200 morti israeliani, più di 200 ostaggi di cui alcuni ancora nelle mani del movimento che governa la Striscia di Gaza, e oltre 44mila morti palestinesi. È la prima volta che i leader di un paese alleato dell’Occidente vengono condannati dalla Corte. Ora Netanyahu e Gallant sono a rischio di arresto se si recano nei 125 paesi che hanno firmato il trattato di Roma che ha fatto nascere la Corte penale internazionale.

 

Il premier israeliano ha assicurato di non “riconoscere la validità” della decisione della CPI. Dal canto suo, Hamas, ha parlato di “un importante precedente storico e una correzione a un lungo percorso di ingiustizia” contro i palestinesi.

Anche paesi come l’Irlanda e la Slovenia si sono detti pronti ad arrestare Netanyahu se dovesse recarsi nel loro territorio. Francia e Gran Bretagna hanno fatto sapere che avrebbero messo in atto i loro “obblighi legali”, anche in relazione al mandato di arresto della CPI. Non solo, l’Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, ha assicurato che la decisione della CPI “non ha nulla a che fare con l’antisemitismo”. Mentre i politici italiani si sono divisi tra il ministro della Difesa, Guido Crosetto, secondo il quale Netanyahu sarebbe arrestato se andasse in Italia e i più cauti Giorgia Meloni, che ha criticato qualsiasi “equiparazione tra Israele e Hamas”, insieme al ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che ha aggiunto come “i mandati di arresto non portano la pace”.

 

In contrasto con la decisione della CPI si sono espressi il premier ungherese, Viktor Orbán che ha invitato Netanyahu a Budapest, il premier ceco, Petr Fiala, e il presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ha definito “oltraggiosi” i mandati di arresto. Qualsiasi cosa la decisione della CPI implichi non è possibile equiparare Israele e Hamas. Saremo dalla parte di Israele contro qualsiasi minaccia alla sua sicurezza, ha aggiunto Biden. Proprio l’incapacità dei leader statunitensi democratici di ottenere un cessate il fuoco a Gaza è stata tra i motivi che hanno determinato la sconfitta elettorale alle presidenziali di novembre della candidata democratica, Kamala Harris. 

 

Da parte loro, le autorità tedesche hanno confermato che la decisione della CPI non modificherà la politica di fornitura di armi dalla Germania a Israele. Si tratta del 30% del totale delle esportazioni di armi a Israele, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute. Come se non bastasse, lo scorso 7 novembre, il parlamento tedesco ha approvato la risoluzione “Never again is now”, nonostante l’opposizione di attivisti e società civile. La legge ha adottato la controversa definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) che equipara antisionismo e antisemitismo. La norma vorrebbe “proteggere, preservare e rinforzare la vita ebraica in Germania” ma in realtà permette l’esclusione dai corsi e il licenziamento o l’espulsione di chi manifesta, anche in ambito universitario, il suo sostegno per la causa palestinese.

 

A cantare vittoria per la decisione della Corte penale internazionale è stato invece il capo delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Il generale Hossein Salami ha definito il mandato di arresto della Corte penale internazionale come “la morte politica” di Israele perché “i suoi funzionari non possono più viaggiare in altri paesi”. 

 

Bombe su bombe contro il Libano

Nonostante questo la guerra continua e non si fermano i raid israeliani in Libano. Un attacco con bombe antibunker ha colpito il centro di Beirut nel quartiere di Basta, uccidendo venti persone lo scorso venerdì. I raid sono avvenuti senza avvisi preventivi ai civili, e avevano come obiettivo il comandante militare del movimento sciita libanese Hezbollah, Muhammad Haydar. Dall’inizio degli attacchi dell’esercito israeliano (IDF) in Libano, lo scorso settembre, sono 3.500 i morti e oltre un milione i profughi costretti a lasciare le loro case. Non solo, 37 città nel Sud del Libano sono state completamente distrutte dall’inizio degli attacchi di IDF.

 

In particolare, i bombardamenti continuano a colpire gli ospedali libanesi. Sono oltre cento i medici uccisi nei raid dallo scorso settembre. Mentre non si fermano gli attacchi alle basi della missione delle Nazioni Unite (UNIFIL) nel paese sia da parte di IDF sia da parte di Hezbollah. Quattro soldati italiani sono rimasti feriti nella base di Shama, nel Sud-ovest del Libano, soltanto lo scorso venerdì.

I raid israeliani continuano a colpire anche la Siria. Secondo il quotiano libanese Orient Le Jour, nei bombardamenti di IDF a Qusair, vicino Homs, sarebbe stato ucciso Salim Ayyash, condannato nel 2020 dal Tibunale speciale libanese (STL) per aver assassinato l’ex premier Rafiq Hariri nel 2005.

 

Inceppati i negoziati per il cessate il fuoco

Nei giorni scorsi, sembrava vicino un accordo per un cessate il fuoco in Libano mediato dall’inviato degli Stati Uniti, Amos Hochstein. La tregua dovrebbe prevedere una roadmap per il ritiro delle forze israeliane dal Sud del Libano e includerebbe il dispiegamento di tremila soldati dell’esercito libanese nell’area.

Un eventuale accordo sul fronte libanese potrebbe favorire anche una tregua, attesa da oltre un anno, a Gaza. Tuttavia, il Qatar, insieme all’Egitto impegnato sul fronte negoziale, ha informato le autorità USA e israeliane che non andrà avanti con la mediazione perché manca la volontà di raggiungere un’intesa tra le parti in causa. Lo scorso aprile, Doha aveva chiesto ai comandanti di Hamas di lasciare il paese per andare in Turchia. Poche settimane dopo sono però ripresi gli sforzi negoziali con la mediazione del primo ministro, Mohammed bin Abdulrahman al-Thani.

 

Dal canto suo, il leader saudita Mohammed bin Salman, ha condannato le azioni israeliane a Gaza definendole per la prima volta come un “genocidio”. Salman ha anche criticato gli attacchi israeliani in Libano e in Iran. Sebbene l’opinione pubblica saudita abbia costantemente espresso il suo sostegno per la causa palestinese, le autorità di Riyad hanno sostenuto la posizione israeliana nella regione a partire dagli Accordi di Abramo (2020). Infine, è stato ritrovato senza vita ad Abu Dhabi il rabbino moldavo-israeliano, Zvi Kogan che lavorava per il gruppo ebraico ortodosso Chabad ed era scomparso da alcuni giorni.    

 

La crisi umanitaria a Gaza

Non si fermano neppure i raid di IDF nella Striscia di Gaza. L’esercito israeliano ha confermato che lo scorso venerdì cinque militanti di Hamas, inclusi due comandanti, sono stati uccisi a Beit Lahia dove nei raid dei giorni scorsi sono state uccise oltre 70 persone. 

Secondo le Nazioni Unite, nel Nord di Gaza “si stanno riducendo le condizioni per la sopravvivenza” e quasi nessun aiuto umanitario è stato distribuito negli ultimi 40 giorni. Per l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (UNRWA), il conflitto sta rendendo il territorio “inabitabile”. Mentre 98 su 109 camion di aiuti umanitari sono stati violentemente saccheggiati a Gaza dopo aver attraversato la Striscia e il loro carico è andato perduto.

Sebbene le autorità israeliane abbiano deciso di vietare le attività di UNRWA in Palestina, per il responsabile dell’agenzia ONU, Philippe Lazzarini, “non esiste nessun’altra agenzia in grado di svolgere le stesse attività”. Non solo, l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato l’elevato numero di civili uccisi nella guerra a Gaza, di cui il 70% negli ultimi sei mesi sono donne e bambini. Come se non bastasse, il 44% delle vittime verificate dall’ONU sono bambini tra i cinque e i nove anni.

 

Il mandato di arresto della Corte penale internazionale per il premier israeliano Benjamin Netanyahu conferma ancora di più che il genocidio in corso a Gaza deve avere fine. Chiarisce anche che alla dura opposizione interna alle politiche del governo israeliano si uniscono le critiche internazionali agli eccessi e ai crimini di guerra che i militari israeliani stanno perpetrando a Gaza e in Libano confermando che l’operato di IDF viola il diritto internazionale. In attesa che Donald Trump si insedi alla Casa Bianca, la volontà degli Stati Uniti di trovare con Mosca una soluzione al conflitto in Ucraina potrebbe avere effetti anche sul conflitto in corso a Gaza, e sullo scontro tra Israele e Iran. Nei prossimi mesi vedremo se questo impedirà che un’escalation della guerra aggravi ancora di più le sofferenze che stanno subendo civili e bambini nei fronti di conflitto aperti in Medio Oriente.

 

 

 

Nella foto (REUTERS): Un cartellone che ritrae il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l'ex ministro della Difesa Yoav Gallant, esposto su un edificio a Teheran

Pubblicato il

25.11.2024 15:20
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