La mano invisibile

Ci sono accostamenti che possono apparire impropri o azzardati. Possono però indicare tendenze che suggeriscono qualcosa. Come il vecchio che si traveste o il nuovo che si  propone perché bisogna comunque cambiare.


C’è una tendenza politica in atto già manifestatasi a livello cantonticinese (accettata dal popolo per un soffio), proposta ora con maggior enfasi a livello nazionale (già adottata dal Consiglio degli Stati.) Si fonda su una singolare ambivalenza. Da un lato, per dirla in termini spicci, continua a ridurre le tasse a chi sta bene e in nome della concorrenza fiscale tra cantoni o nazioni, alle imprese. D’altro lato si pone qualche scrupolo sociale, di bilanciamento “etico”, e allora ci si vuol mostrare generosi anche dall’altra parte, quella meno favorita, concedendo deduzioni o sovvenzioni. Sa perlopiù di politica paraculo o di pillola addolcita.
Il ritornello rivendicativo degli ambienti economici e delle imprese è sempre impostato su due battute: troppe tasse, troppa burocrazia (perdita di concorrenzialità e di competitività, minacce di dislocazioni con perdite fiscali e occupazionali). Un ritornello che ha perso credibilità. La dimostrazione popolare la si è avuta con il rifiuto della Riforma delle imprese III. Ora si ritorna alla carica (anche per costrizioni internazionali), con un altro progetto. Che questa volta inventa i due piccioni ad una fava: alleggerire notevolmente le imposte sulle imprese, con notevole perdita per le finanze pubbliche (non preoccupandosi comunque dell’assurda e suicida concorrenza fiscale tra i cantoni); alimentare le casse dell’Avs per i prossimi quindici anni versandovi l’equivalente delle perdite dovute alla riforma fiscale. Quanto basta per far contenti tutti. Risulta però chiaro che se compensazione sociale si vuole, questa non è assunta dalle imprese; il finanziamento (e qui sta il travestimento) avviene per la maggior parte a carico dei salariati (quote Avs, Iva) o su quelle dei contribuenti (contributo federale).


Ed eccoci all’accostamento. Altra tendenza sembra manifestarsi su un altro piano. Giudicando almeno dai modi di classificare le 1.200 migliori imprese del mondo da parte di quella che è ritenuta un faro dell’economia, la Harvard Business Review (Hbr). I risultati  finanziari non possono più essere i soli criteri per valutare il bilancio dell’impresa o dei suoi dirigenti. Devono assumere importanza determinante i livelli di responsabilità sociale ed ambientale (Rse), tanto da farli pesare per almeno il 20 per cento nella nota finale. E non per una questione morale, ma per ragioni economiche, perché le singole analisi dimostrano che c’è una correlazione diretta tra quelle responsabilità e i risultati a media-lunga scadenza delle imprese. Perché gli investitori, in particolar modo quelli istituzionali (casse pensioni), ma anche importanti fondi di investimento, sono diventati molto più critici ed esigenti e si attendono che le imprese non si preoccupino solo dei profitti o dell’ottimizzazione fiscale, ma si impegnino maggiormente a tener conto di problemi della società in cui operano.


Si legge quasi con meraviglia il commento fatto dal presidente del Boston Consulting Group, gruppo di consulenza che ha come clienti le maggiori imprese del globo: «Sì, le imprese hanno un dovere nei confronti della società. Non possono più ignorarlo. Se poi le imprese pretendono troppo in materia di sgravi o esoneri fiscali, destabilizzano gravemente il sistema sul quale esse stesse si fondano». Da far conoscere ai nostri politici trasformisti.

Pubblicato il 

14.06.18
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